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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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Credo che la perdita di un figlio sia un dolore così lancinante da giustificare qualsiasi reazione, anche la più assurda. Ciò detto, posso affermare che le frasi della madre di Vittorio Arrigoni mi mettono a disagio? Un genitore di fronte alla morte può reagire piangendo, strappandosi i capelli, inveendo contro gli assassini oppure chiudendosi in un silenzio totale per isolarsi dal mondo. Ma che c'entra prendersela con chi non ha nulla a che fare con la fine di tuo figlio? Quale senso può avere chiedere che il cadavere non transiti nemmeno per Israele, ma sia riportato in Italia passando dal Cairo? Non è stato un soldato dell'esercito di David a strangolare Vittorio Arrigoni e neppure un militante di qualche gruppo terrorista dell'estrema destra di Tel Aviv. A soffocarlo con un sacchetto di plastica sono stati alcuni fanatici appartenenti ai sanguinari gruppi salafiti operanti a Gaza, i quali si oppongono ad altri integralisti che fanno parte di Hamas. Il pacifista italiano, morto in una baracca araba e non in una prigione israeliana, è rimasto vittima di una faida tra palestinesi e fondamentalisti, non di una sparatoria con i coloni. Eppure i genitori di Vittorio Arrigoni paiono avercela più con Israele che con chi l'ha ammazzato. La mamma, che le cronache descrivono come una donna gentile e generosa, sempre pronta ad aiutare gli altri e a impegnarsi a favore dei più deboli, ha espresso un solo desiderio, e cioè che il corpo del figlio ritorni in patria senza nemmeno sfiorare il suolo di Israele. La signora Egidia Beretta, sindaco di centrosinistra in un paesino del lecchese, lo ha detto ai giornali appena appresa la notizia dell'assassinio e lo ha fatto ribadire dall'avvocato che intrattiene i rapporti con la Farnesina, ponendola come condizione irrinunciabile. Anche a costo di ritardare l'arrivo in Italia della bara, giacché il confine con l'Egitto è chiuso da anni, Vittorio deve rientrare passando per il valico di Rafah, quasi che il solo transito per l'aeroporto di Tel Aviv rischi di corromperlo e di contaminarne  gli ideali. Che il giovane volontario lombardo odiasse tutto ciò che gli ricordava la stella di David è noto. Sul suo blog si possono leggere le parole con cui accusava il premio Nobel per la pace Simon Peres di sterminare i bambini con le bombe al fosforo bianco, o il disgusto con cui rifuggiva dai libri di scrittori israeliani favorevoli al dialogo con i palestinesi come Amos Oz e Abraham Yehoshua, definendole pagine sporche di sangue. E dunque comprendo che la madre - la quale ha dichiarato di condividere le opinioni del figlio e di essere orgogliosa di lui - voglia idealmente proseguirne la battaglia, a nome di coloro i quali Vittorio riteneva essere gli unici e i soli oppressi. Ma almeno nel momento della morte, almeno di fronte al cadavere di un giovane uomo di 36 anni, il quale è stato assassinato da troppo odio, non sarebbe auspicabile un gesto di pace? Non dico di rinunciare alle proprie idee e nemmeno di assumere atteggiamenti ipocriti che annullino differenze che ci sono state e ci sono. Penso solo che di nessun corpo, tantomeno quello di un figlio, si dovrebbe fare un uso simbolico, meno che mai politico, come quello di farlo passare per un confine bloccato da anni per impedire che da lì vi transitassero le armi. Nonostante sul suo sito Arrigoni esortasse a sguinzagliare le bestie contro i coloni e sebbene egli definisse Israele uno stato criminale e razzista, spiegando che disgustoso era sinonimo di sionista, i suoi articoli e le corrispondenze su Internet si concludevano sempre con l'invito a restare umani. Ecco, appunto: almeno adesso che una banda di  tagliagole islamici lo ha ferocemente ucciso, non sarebbe ora di ritornare a essere umani? Se al contrario la madre volesse davvero fare di suo figlio un simbolo, allora abbia il coraggio di lasciarlo là dove l'hanno ucciso: a futura memoria per i suoi assassini. I quali, val la pena di ricordarlo, non sono israeliani.

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