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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Lucia Esposito
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C'è un pezzo d'Italia fuori controllo, in cui lo Stato non è in grado di far valere la legge. Il luogo però non è in Campania, dove regnano i Casalesi né in Calabria, tra le gole dell'Aspromonte, bensì nel civilissimo e ordinatissimo Piemonte, un tempo sede del regno sabaudo e, fino a non molti anni fa, simbolo  dell'imprenditoria italiana. Il luogo si chiama Val di Susa, una conca percorsa dalla Dora Riparia che da mesi è diventata un'enclave, una repubblica nella repubblica, dove, nonostante lo schieramento di polizia e blindati, un gruppo di contestatori si fa beffa delle istituzioni. La storia è nota e va avanti da un paio di decenni, cioè da quando l'Europa ha immaginato una rete ferroviaria ad alta velocità che corresse dalla Spagna fino all'Ucraina, passando per l'Italia. Secondo il piano i binari avrebbero dovuto arrivare a Lione e di qui collegarsi a Torino, attraversando la Val di Susa. Il progetto, giudicato una soluzione per alleggerire il traffico su gomma ma anche un'occasione per far crescere l'interscambio commerciale a favore del nostro Paese, incontrò subito la ferma opposizione dei valligiani, ai quali importava nulla delle ricadute economiche sull'Italia, ma erano preoccupati esclusivamente delle ricadute sul loro giardino. Proteste, discussioni, trattative: alla fine il governo decise di accogliere un po' delle richieste dei critici e modificò il percorso. La vicenda sembrava finita lì, ma quando ad un tratto stava per essere pronunciato il pronti-via, ecco ripartire le manifestazioni. Come in una specie di gioco dell'Oca,  tutto è così ricominciato dall'inizio, cioè dall'utilità dell'opera, dalla sua pericolosità, dall'impatto sull'ambiente. Con un'aggravante. Che quando si è tentato di dare inizio ai lavori, è scoppiata la baraonda. Operai minacciati e presi a sassate, mentre i poliziotti chiamati a difenderli sono finiti all'ospedale. Neanche l'arresto di un gruppo di scalmanati ritenuti responsabili dell'aggressione agli agenti ha contribuito a calmare i bollori. Anzi, gli animi dei manifestanti si sono scaldati ancora di più e dopo l'incidente occorso a uno di loro arrampicatosi su un traliccio, i No Tav hanno perso ogni freno. Insulti ai carabinieri posti a presidio dell'ordine pubblico, minacce e botte ai giornalisti (lunedì era stato il turno dei colleghi di Libero, ieri di quelli del Corriere), strade e autostrada interrotte da sbarramenti, l'accesso ai paesi limitato alle sole persone gradite, cioè quelle che vi abitano o che sostengono la causa anti-Tav. Insomma, un pezzo del civilissimo, moderno e avanzato Settentrione non è più nelle mani dello Stato, il quale non riesce ad esercitare i suoi poteri e far rispettare le sue leggi. Da giorni i camion diretti in mezza Europa sono fermi  in autostrada in attesa che qualcuno faccia qualcosa. O meglio: che qualcuno torni ad applicare il codice penale anche in Val di Susa. Come detto, ad oggi Mario Monti non ha aperto bocca sulla questione, facendo perdere le sue tracce. Per l'esecutivo hanno parlato il ministro dello Sviluppo economico e anche quello degli Interni, ma su una delle più importanti infrastrutture in corso di realizzazione in Italia il premier non ha sentito la necessità di esprimersi. Il silenzio di un presidente del Consiglio che si prefigge di cambiare i comportamenti degli italiani a questo punto è assordante. Tacere di fronte a gente che si fa beffe dello Stato e che si ribella a decisioni di interesse nazionale non è un buon punto di partenza per adeguare gli atteggiamenti dei cittadini agli standard europei. Noi ci aspettiamo che Monti dica la sua, soprattutto che faccia sentire la voce e l'autorità delle istituzioni. Non vorremmo infatti che il rigore di cui egli si è fatto portatore si limitasse all'economia e alla spremitura dei contribuenti, senza toccare ribaldi e malviventi. Tuttavia la bocca cucita del premier di fronte ai fatti della Val di Susa non è la sola a colpirci. Un altro genere di mutismo ha attirato la nostra attenzione ed è quello adottato dagli esponenti più in vista del Pd, in Piemonte e non solo. L'ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino, impegnato com'è a scalare la presidenza della Fondazione bancaria che controlla Intesa Sanpaolo, si guarda bene dal dichiarare alcunché, mentre l'attuale primo cittadino pare assai impegnato a non irritare l'alleato vendoliano su cui si regge la sua giunta. Mercedes Bresso, già governatrice del Piemonte, una che sul tema della Tav ha oscillato tra opposizione e consenso, non si è ancora ripresa dalla sconfitta in Regione. Fin qui per restare in ambito locale. Ma anche tra i vertici romani non c'è tutta  questa voglia di intervenire sul caso. Bersani e compagni sembrano distratti da regolamenti di conti interni. Veltroni, contro il segretario, Vendola contro Veltroni, D'Alema mollato dai suoi...  Eppure, se volessero, i dirigenti del Partito democratico ne avrebbero da dire, soprattutto ai contestatori. A guidare il movimento No Tav, a farlo crescere e attecchire in Valle prima che si presentassero gli antagonisti e gli spaccatutto, sono stati i loro sindaci, cioè i capi dei Comuni della zona interessata al tracciato dell'Alta velocità. Con in tasca la tessera  dei Ds prima e del Pd poi, hanno indirizzato la lotta al transito dei treni, sostenendo l'inutilità e la dannosità del progetto. Adesso che la protesta rischia di sfuggire di mano, che bande di casseur professionisti bloccano l'autostrada, assaltano sedi di giornali, picchiano le troupe televisive e incendiano le auto, che fanno quei primi cittadini? Che cosa hanno da dire il Pd e il suo segretario? Dai Bersani, facci vedere. Tu che non perdi tempo a smacchiare i giaguari, trovane un po'  per smacchiare i guerriglieri della Val di Susa e i loro amici.   no-tav,

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