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Se i mostri di Orwell somigliano troppo ai nostri politici

Dai discorsi dal lessico involuto in Parlamento emerge il paragone con le retorica sciatta dei nostro onorevoli (Conte in primis)

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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George Orwell Foto: George Orwell
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“In prosa la cosa peggiore che si possa fare è arrendersi alle parole”, scriveva lucidamente George Orwell scontrandosi con la politica. Aggiungerei che, osservando i discorsi di Giuseppe Conte alle Camere, Orwell non avrebbe mai immaginato che quella stessa resa incondizionata, quel rendersi ostaggio di un lessico impossibile, sarebbe diventato la piattaforma programmatica di un governo. Quello italiano, nella fattispecie.

Eppure, è proprio così. Sul Foglio Giacomo Papi, producendosi in una personale esegesi de La neolingua delle politica (Garzanti, a  cura di Massimo Birattari) a cui segue l'appena uscito pamphlet- gioiello orwelliano Sparando all’elefante- Dal totalitarismo alla poesia, dal pacifismo al nazionalismo, da Londra alla Birmania (edizioni e/o, euro 10, pp 128, Collana Piccola Biblioteca Morale); e Papi accosta ad essi l’innevata retorica del nostro premier. E, su quella morbida coltre, costruisce una formidabile comparazione tra la “neolingua” distopica del Grande Fratello e l’ “antilingua” dell’avvocato appulo. Orwell sulla prosa involuta, con i bigodini -direbbe Vittorio Feltri- dei politici è spietato. “Lo stile ampolloso è in sé un genere di eufemismo. Una massa di parole latine cade sui fatti come soffice neve, confondendo i contorni e coprendo tutti i dettagli. Il grande nemico del linguaggio chiaro è la mancanza di sincerità”, scrive l’autore inglese “quando c’è distanza fra gli obiettivi reali e quelli dichiarati, allora si tende istintivamente a parole lunghe e modi di dire consumati dall’uso, come una seppia che schizza inchiostro. Nella nostra epoca non c’è spazio per ‘stare alla larga dalla politica’. Ogni questione è una questione politica e la politica stessa è una massa di bugie, evasioni, follia, odio e schizofrenia. Quando l’atmosfera generale è cattiva, la lingua ne soffre”. E subito, in un flash spaziotemporale, appare quasi che la critica di Orwell venga evocata nel momento esatto in cui Conte dichiara: “Il programma sul quale mi accingevo a chiedere la fiducia al Parlamento non si risolveva, non poteva risolversi, in una mera elencazione di proposte eterogenee né tantomeno in una sterile sommatoria delle posizioni assunte”.  Perché è dannatamente vero che Conte, a differenza di molti attuali leader dalla prosa spiccia figlia dei social -Renzi su tutti, Salvini, Meloni, perfino Di Maio- si dimostra doroteo e avvolgente nella costruzione stessa della frase. Conte resuscita una lingua antica che abbandona la sicurezza del paratattico; s’inebria di subordinate; si smeriglia con termini giuridici e locuzioni burocratiche; si gonfia di epiteti rassicuranti (“resilienza” a sostegno di “ricostruzione”, “costruttori” e “forze parlamentari volenterose” al posto di “responsabili” che fa tanto Scilipoti); e, infine, plasma un pensiero politico, morbido, adattabile. Orwell parla di “nebulosa vaghezza”. Trattasi di un pensiero al botulino.

Sembra di essere tornati alle abusatissime “convergenze parallele” di Scalfari attribuite ad Aldo Moro nel 60 . “Convergenze” per le quali, da semiologo, Umberto Eco citava il linguaggio iperbolico di Carlo Emilio Gadda o l’ “Antilingua” di Italo Calvino mentre esprimeva un “terrore semantico” verso le devianze dell’italiano parlato. Laddove Birattari nella prefazione del libro, rispolvera il Tubolario dei giochi Sebino (un cilindretto degli anni 70 con dieci frasi generiche che non dicevano nulla, ma si adattavano a qualsiasi discorso); ecco che Eco, nel suo veleggiare tra i generi, rispolverava il Multivac, il protocomputer parolaio dei romanzi di Asimov che oggi ispira gli assistenti vocali di Amazon e Google. Ma, naturalmente non si tratta soltanto di Conte. Il J’accuse vale anche per i discorsi intorpiditi di Zingaretti o quelli dc di Rotondi e di una parte della sinistra antica; la destra è, di media, più terra-terra. Vale, soprattutto, per le uscite perigliose dei 5 Stelle. Da Davide Tripiedi che alla Camera esordì con un “sarò breve e circonciso” oscurando il resto della prolusione, al coltissino collega Andrea Cioffi comparatore del governo al ciclo del glucosio: “Una serie di elementi che ruotano, che danzano attorno al loro mentore, il carbonio. E’ lì, sulla superficie della foglia nasce l’amore, quando l’anidride carbonica entra nel verde e ballando sotto i raggi del sole, ebbra del suo calore, si divide, lasciando l’ossigeno libero…”. Il glucosio. Qui, saremmo di fronte, giornalisticamente, a una meraviglia.

Se non fosse che c’è sempre un certo grado di sciatteria nel rendere ostica una lingua, che sia quella inglese di Orwell o la nostra. “La lingua diventa brutta e imprecisa perché i nostri pensieri sono stupidi, ma a sua volta la sciatteria della lingua ci rende più facili i pensieri stupidi”, scrive Orwell “si dovrebbe piuttosto riconoscere che il presente caos politico è connesso alla decadenza del linguaggio, e che si potrebbe apportare qualche miglioramento partendo dall’aspetto verbale”. Lo scriveva nell’Inghilterra del secolo scorso. Ma se si considera la sua idea di “bipensiero” cioè la possibilità, anzi il dovere, di affermare un’idea e il suo contrario da far sì di apparire sempre nel giusto; be’, si capirà che ogni epoca ha i suoi emuli…

 

 

 

 

 

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