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Ripley, il piacere della lentezza

Un protagonista psicopatico, stile classico e Mina in sottofondo: il segreto di un successo imprevisto

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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 Ripley Foto:  Ripley
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L’incipit è una scena alla Raymond Chandler: il protagonista -volto di pietra, identità e personalità multiple- che trascina faticosamente un cadavere. Poi la telecamera si stacca su un’altra scena, noirissima, con tutta quella New York che non dorme mai: la città avvolta nel bianconero, le strade deserte, i grattacieli ritti come lapidi tombali e un tizio in una stanzetta lurida che si arrabatta tra inutili viaggi in metropolitana, bar scalcinati, documenti falsi e truffe di piccolo cabotaggio. Dopodiché, cambia tutto. Il tizio riceve la visita di un investigatore privato. Il quale si presenta con la proposta da parte di un ricco imprenditore che offre al nostro ominicchio un lavoro: un viaggio pagato in Italia per convincere il proprio figlio ribelle, un mediocre artista, a tornare a casa dal ricchissimo padre. Ecco, da qui si accende, in tutto il suo algido splendore, la serie Ripley, che sta spopolando su Netflix, ennesima versione in 8 puntate del Talento di Mister Ripley, classicissimo thriller psicologico tratto dal romanzo del 1955 di Patricia Highsmith. Ripley è, in effetti, una visione ipnotica basata sui lunghi silenzi, la fotografia espressionista e l’ossessione del dettaglio. Lo sceneggiatore e regista premio Oscar Steven Zaillian, autore di Schindler’s List e della serie di Hbo The Night Of annega la storia in una caligine perfetta a metà tra il neorealismo italiano e il miglior Alfred Hitchcock. La storia di Ripley, schizofrenico di talento (il primo episodio termina con lui che ghigna e si interroga allo specchio, immedesimandosi nella sua prossima vittima) deciso ad ammazzare l’artista esule - Dickie Greenleaf - di cui sopra per sostituirsi a lui ha avuto varie versioni e personificazioni. Sono stati Ripley Alain Delon, e pure John Malkovich e anche Matt Damon nell’indimenticato film di Anthony Minghella del ’99 (partecipazione straordinaria di Rosario e Beppe Fiorello mentre cantano Tu vuo’fa’ l’americano). Ma nessuno di loro trasuda il fascino inquietante dell’ultima versione di Ripley, Andrew Scott, il serial killer perfetto dalla voce glaciale e l’espressione che ricorda, in ogni gesto, sempre la malvagità sublime del Professor Moriarty a cui lo stesso Scott diede carne e sangue in Sherlock. Il bello è che il suo Ripley non è l’arrampicatore sociale calmo e freddissimo che usa l’allegria come arma contundente. Qui si vede subito che è Ripley uno psicopatico in grado di impallare ogni inquadratura.

LE CANZONI DI MINA Metteteci anche le canzoni di Mina e di Renato Carosone in sottofondo, sullo scenario della costiera amalfitana anni ’60; e le spiagge semivuote disegnate in inquadrature a piombo estetizzanti; e i labirinti e le scalinatelle in calce bianca dei paesi del golfo come metafora della complessità del delitto. E otterrete un noir lento quanto formidabile, dipanato su vari piani di lettura. Qualcuno ci vede perfino una metafora tra la vita e l’arte espressa nell’ossessione di Tom di ereditare la opere di Caravaggio e Picasso di Dickie. La differenza col romanzo classico è la mancanza di morbosità nel rapporto fra Tom e Dickie, tra i quali si frappone la bella Margie. Cioè: per una volta la sottotraccia omosex (la Highsmith cita anche nell’altro suo classicone Sconosciuti in treno, da cui Hitchcock trasse Delitto per delitto) è completamente ignorata. Anche perché, oggidì, il tema gay è ritrito, anzi ormai è quasi la love story etero a essere trasgressiva. In compenso, l’omaggio al gender sta in Freddie un personaggio che nel libro è dichiaratamente maschile che qui diventa Eliot Summer, caratterista inevitabilmente femminile. Altro elemento positivo: la presenza di attori italiani, tutti perfettamente in palla. Su tutti Margherita Buy e Maurizio Lombardi tra gli affezionati interpreti di Paolo Sorrentino, qui nel ruolo di un ispettore che indaga e interroga la gente, a colpi di taccuino, sugli omicidi ripleyani. Quello che del tutto inquieta e attrae è l’assenza totale di colori: la scelta del biancoenero ricorda non solo i film di genere anni 40, o quelli del francese Jean Pierre Melville degli anni 50; ma soprattutto il capolavoro di Fritz Lang M- il mostro di Düsseldorf. Una tensione così, affidata in gran parte alla lentezza e ai silenzi del racconto, va inoculata anche alle nuove generazioni: il cinema autentico contro il rincoglionimento catatonico di Tik Tok..

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