Nonostante tutti gli interventi e i buoni propositi volti a eliminare le differenze di genere esistenti in ambito lavorativo e salariale, oggi, in Italia, a parità di preparazione e di ruoli ricoperti, le donne percepiscono retribuzioni inferiori rispetto agli uomini.
È interessante verificare come, inizialmente, le donne – in termini di numeri e di risultati – superino di gran lunga gli uomini: si laureano prima, è maggiore il numero di iscritte all’università, hanno voti più alti e così via.
Nel primo periodo di ingresso nel mondo del lavoro e con riferimento all’iniziale crescita professionale, le differenze uomo/donna non si fanno sentire e tutti ricevono pressappoco lo stesso trattamento.
Le differenze, poi, emergono drasticamente con l’avanzare degli anni e, infatti, assistiamo non solo alla preferenza di assunzioni di uomini, ma, altresì, a una importante disparità di trattamento a livello salariale. Drasticamente a svantaggio delle donne.
Capita, infatti, che una lavoratrice decida di avere uno o più figli e, quindi, necessariamente, per qualche tempo dovrà, se non smettere di lavorare, quanto meno rallentare il proprio impegno professionale. Il datore di lavoro, quindi, preferirà un lavoratore che sia sempre stato attivo, perché lo riterrà più aggiornato e preparato.
Peraltro, anche quando una donna non ha avuto figli o non ha espresso chiaramente questa intenzione, c’è sempre la possibilità che lei decida di averne e, quindi, anche in questo caso, il datore di lavoro, potrebbe propendere sulla scelta di un uomo. Per non trovarsi, magari, a dover assumere una nuova risorsa che possa sostituire la lavoratrice in maternità. A maggior ragione, considerato il fatto che è notevolmente aumentata l’età entro la quale avere figli.
Tutto questo pone le donne in una posizione di oggettiva debolezza “competitiva” che si tramuta nell’assunzione e nell’avanzamento di carriera degli uomini molto di più di quanto avvenga per le donne. Con conseguente e inevitabile, divario economico. Dunque, senza volerci girare intorno, gli uomini guadagnano di più e, nella coppia, continuano a rappresentare il coniuge economicamente forte.
Intanto, però, le donne quasi sempre lavorano abbastanza da essere economicamente autosufficienti e non avere, quindi, diritto al mantenimento per se stesse in caso di separazione o di divorzio. Avranno, al più, diritto a un contributo economico per il mantenimento dei figli che, proprio loro, fino a quel momento hanno cresciuto con maggior sacrificio rispetto a quanto abbiano fatto i mariti/padri che, con la separazione, avanzano spesso la richiesta di potersi occupare dei figli per parti tempo. Richiesta ormai ampiamente riconosciuta, quando i minori non sono piccoli.
Capita, quindi, che le madri vivano la sofferenza per il fallimento del matrimonio, sommata sia a quella che ritengono un’improvvisa “intrusione” da parte dei padri nella gestione dei minori sia alla preoccupazione che, oggettivamente, la condizione di debolezza economica può comportare.
Con tutto questo non intendo sostenere né che i padri non debbano avere un ruolo importante nella vita dei figli (soprattutto in caso di separazione) né che le donne debbano dedicarsi di più al lavoro e meno alla crescita dei bambini. È oggettivo, però, che il divario economico esistente nel mondo del lavoro tra uomo e donna, inevitabilmente, creai un forte malcontento in caso di separazione e divorzio.
Come sempre la soluzione sta nel buon senso, del coniuge economicamente forte che deve necessariamente garantire un equo aiuto economico al coniuge economica debole. Ma anche di quest’ultimo nel non ambire a rendite e mantenimenti parassitari e vitalizi. Così, ognuno nel proprio piccolo, iniziando a sradicare davvero gli stereotipi culturali.
Avv. Marzia Coppola
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