Non serve consultare gli aruspici per prevedere che il Padiglione Usa alla Biennale 2026 scatenerà tante polemiche. Tra i progetti presentati al Bureau of Educational and Cultural Affairs del Dipartimento di Stato statunitense incaricato di scegliere chi rappresenterà l’America alla prossima edizione della mostra internazionale d’arte di Venezia, ce n’è uno che prevede la trasformazione dello spazio ai Giardini in un altare dedicato al più divisivo dei presidenti americani. The Game: All Things Trump, presentato dall’artista Andres Serrano è infatti più di una provocazione estetica: è un terremoto politico, culturale e simbolico. Un mausoleo, letteralmente, dedicato a Donald Trump nel tempio laico dell’arte contemporanea mondiale.
Serrano – artista americano di origini afro-cubane e honduregne, cresciuto a New York, noto per avere immerso una croce nell’urina nel celebre Piss Christ e per la serie America (2001–2004) in cui aveva già incluso un ritratto del tycoon come incarnazione del sogno americano – ha spiegato che verrà documentata l’ascesa, il culto e le rumorose contraddizioni di Trump, tra merchandising patinato, video d’archivio e immagini tratte dal suo film Insurrection, dedicato all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Saranno esposti in pratica oltre 200 centomila dollari di memorabilia trumpiana, dal cappellino “Make America Great Again” alla mini torta nuziale del matrimonio con Melania. E poi le penne con cui ha firmato i primi provvedimenti, le cravatte, i pupazzetti che l’artista ha iniziato ad accumulare dal 2019.
Ma attenzione: non si tratta solo di kitsch politico o di una boutade da artista furbo. Il Padiglione Usa alla Biennale, affidato alla gestione della Peggy Guggenheim Collection ma di proprietà della Solomon R. Guggenheim Foundation, è una delle vetrine più autorevoli del soft power americano. Da sempre qui si racconta «l’ampiezza della comunità americana dell’arte», come da mission ufficiale. Una comunità che ora, secondo Serrano, può e deve guardarsi allo specchio. E lo specchio – si sa – non sempre lusinga. «Nessuno rappresenta meglio l’America del presidente stesso», ha dichiarato Serrano. La frase, così vera nella sua semplicità, colpisce nel segno. Forse Trump è davvero l’America di oggi e il progetto non è un’agiografia, piuttosto una testimonianza sul come il magnate americano sia riuscito – anche attraverso gli oggetti – a conquistare il consenso che lo ha portato alla Casa Bianca.
È qui che la proposta dell’artista diventa davvero insidiosa: l’ambiguità è totale. È satira o celebrazione? È una critica feroce o l’ennesima consacrazione postmoderna del populismo mediatico? L’arte, sostiene Serrano, «deve osservare, non giudicare». Ma è ancora credibile questa neutralità quando si mettono in scena reliquie di un uomo ancora in vita dalle cui decisioni dipendono le sorti dell’umanità? Davvero la Biennale – con la sua storia fatta di esperimenti, utopie, scontri e visioni – può diventare la sede per un monumento al culto della personalità? La provocazione, però oggi non può più essere salvata dall’alibi del sollevare dibattito e «far discutere». La discussione, piuttosto, dovrebbe spostarsi su un altro piano: non se The Game sia “arte”, ma se sia arte necessaria. In questo senso, il progetto di Serrano è rivelatore più che sovversivo. L’arte, oggi, è il termometro di una febbre. Una febbre collettiva. Che esalta alcuni e inorridisce altri, ma non lascia indifferenti. Dunque perché no un mausoleo per Trump alla Biennale? Cos’altro dovrebbe fare l’arte, se non raccontare il potere, sezionarlo, perfino glorificarlo quando serve. Lo scandalo che provocherà Serrano con il suo padiglione sarà nello sdegno. Lo scandalo sarà nell’incapacità di riconoscere, in questa proposta, uno dei più lucidi ritratti dell’Occidente contemporaneo. Anche perché lo stesso Donald può essere visto, oggi, come un artista concettuale. Ha inventato un’estetica, una mitologia, un sistema di valori (e di nemici). Ha trasformato la politica in performance, la presidenza in scenografia.
Da parte sua il mondo della cultura non deve né approvare né vietare, ma deve resistere. Resistere alla spettacolarizzazione, al culto, al feticismo mediatico. Resistere all’idea che rappresentare un’epoca significhi inchinarsi al suo volto più urlato. Serrano con il suo padiglione americano offre uno specchio. Chissà se i visitatori della Biennale 2026 sapranno guardarsi, o finiranno per farsi selfie anche lì?