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Domenico Arcuri, Alessandro Giuli ad alzo contro il commissario: "È stato il cocco di Bertinotti e Prodi"

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Un comunista da salotto si aggira per l’Italia: Arcuri Domenico da Melito di Porto Salvo, professione “Commissario per il potenziamento delle infrastrutture ospedaliere” nell’epoca assurda del Coronavirus; lavoro che svolge in coppia conil ragionier Borrelli Angelo della Protezione civile. E in due, mal sopportandosia vicenda, non valgono nemmeno l’ombra di uno statista. Di Arcuri ciascuno di noi rammenta l’alterigia screanzata con la quale, durante una delle troppe e pleonastiche conferenze stampa che per oltre due mesi hanno scandito il rito della disperazione quotidiana da Covid-19, ha apostrofato chi osava dubitare della pasticciata gestione delle forniture di mascherine: «Io non penso che tra le mie mansioni ci sia quella di rispondere alle singole polemiche sulle mascherine. Anche se avrei tanta voglia di parlare dalla trincea in cui da 40 giornimi trovo conil dottor Borrelli e i nostri collaboratori, di parlare dei liberisti che emettono sentenze quotidiane da un divano con un cocktailinmano». Propriolui parlava così, un sinistro mandarino senza fissa dimora, il primo uomo di Stato ad avere imposto un tetto al prezzo di un fantasma: le suddette mascherine, tuttora inesistenti nelle farmacie.

 

 

 

Non è colpa sua se è nato naturalmente antipatico, con quel radicamento alla materia bruta che si nota fin dalla cespugliosa attaccatura dei suoi capelli grigi, ma certo il sussiego che non manca di esibire con puntualità gli deriva dalla consuetudine con il potere caratteristica nelle oligarchie dei burocrati sovietizzanti. E lui modestamente lo divenne presto. È giunto ai vertici dell’attuale Comitato di salute pubblica arrangiato a causa della pandemia dopo ben 13 anni trascorsi come amministratore delegato di Invitalia, l’agenzia nazionale per gli investimenti e lo sviluppo d’impresa controllata dal ministero dell’Economia: unente pubblico che odora dalontano di pianificazioni quinquennali e altri residuati novecenteschi; del resto Arcuri ha raggiunto quella vetta nel 2007, regnante Romano Prodi grazie ai voti di Fausto Bertinotti. E a proposito di Prodi, non stupisce che il nostro commissario si sia fatto le ossa proprio nell’Iri, per poi concedersi una scappatella di lusso come ad di Deloitte Consulting. Nulla da eccepire, dunque, sul curriculum professionale del più noto anti liberista fra i laureati in Economia all’università confindustriale (Luiss). Salvo che, alla prova dei fatti, quando ha dovuto mettersi in gioco coram populo abbandonando il protettivo cono d’ombra del decisore annidato nei labirinti della cosa pubblica, si è subito rivelato un piccolo funzionario impaziente, incline alla gaffe e inadatto al gravoso compito. Per cominciare, al proprio esordio mediatico, si è involontariamente disvelato ai cittadini promettendo che «arriveranno a Roma alcuni aerei dell’Unione Sovietica che porteranno 180 medici, infermieri e ventilatori».

Era l’ultima settimana di marzo, la curva epidemiologica nazionale metteva i brividi, la popolazione tremava confinata a casa per decreto di Palazzo Chigi (“ukaz”, nella lingua arcuriana), e il commissario cercava di rassicurarci dicendo che il Patto di Varsavia stava correndo in nostro soccorso… Subito dopo sono giuntele schermaglie derisorie con i giornalisti («se andate sul mercato per conto vostro, vi chiedo di comprare qualcosa anche per me»), a conferma che non sarebbe stato casuale il successivo e plateale sbotto di suprematismo illiberale a proposito delle mascherine oleografi che a costo calmierato e di quelle invece lavabili che tali sono perché «si possonolavare più di una volta» (ma va?). Meglio di lui, quanto a indisponente sicumera, c’è soltanto il suo dante causa Giuseppe Conte, comandante in capo della narcisistica giunta medico-politicache sièimpossessata della Nazione, l’avvocato di regime capace di svillaneggiare un giornalista colpevole di aver messo in dubbio le qualità salvifiche di Arcuri: «Se pensa di poter fare meglio…». Così, è ormai noto, ha obiettato Conte ed è appunto questo il motto dell’improvvisata arma gentilizia di certi villani centromeridionali in perenne autoadorazione, ruzzolati a Roma per vie traverse ma senza aver nulla da invidiare al cretinismo valligiano del resto d’Italia che da costoro accetta bovinamente d’essere sgovernato

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