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Matteo Salvini, parla Pietro Senaldi: Lega, ecco perché arrivano due terzi dei voti

Pietro Senaldi
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 In Parlamento il Pd si è diviso in quattro partiti: Partito Democratico, Italia Viva, Azione e Liberi Uguali. Con l'eccezione di +Europa, schieramento di consistenza risibile, i non fantastici 4 rappresentano tutta la sinistra italiana. Tuttavia, messi insieme, essi non superano i consensi della Lega, che gli analisti si dilettano a dare in crisi anche se è di gran lunga la prima forza italiana e che, stando ai sondaggi, copre la metà dell'offerta del centrodestra. Il gioco dell'estate è sostenere che Salvini avrebbe perso il tocco magico e che per questo sarebbe sotto processo nel Carroccio, dove spirerebbero venti di scissione. Da una parte i secessionisti bossiani, che non hanno mai digerito la svolta sovranista, sarebbero tentati di gettare la tessera. Dall'altra Giorgetti tramerebbe per pensionare il leader.

Poi c'è Zaia, l'eroe anti-Covid, al quale il Veneto non va stretto ma che in tanti, anche nel partito, riterrebbero più che pronto per palcoscenici più ampi. Per non parlare dei leghisti di ritorno, come Maroni, o altri che la leadership di Salvini ha messo in ombra e che sognano una seconda o terza chance. Gli organi d'informazione filogovernativi soffiano sul fuoco; anzi lo appizzano. Noi di Libero siamo però in possesso di un sondaggio di AnalisiPolitica, che racconta un'altra storia. Oltre due terzi degli elettori leghisti, stando all'istituto demoscopico guidato da Arnaldo Ferrari Nasi, dichiarano di sentirsi più vicini a Salvini come leader che alla Lega come partito. Un esito perfettamente in linea con la storia del Carroccio, che per gli oltre 25 anni di vita precedenti alla segreteria dell'ex ministro dell'Interno ha sempre oscillato tra uno zoccolo duro del 4%, livello sotto il quale Matteo l'ha ereditato, e punte massime del 10%. Il che significa che il valore aggiunto dell'attuale leader è stato decisivo per il balzo del partito, che sotto la sua guida è arrivato a moltiplicare per 8-9 volte i consensi. La premessa è fondamentale per capire quanto siano poco realistici gli scenari di divisione della Lega. Non è difficile immaginare che ci siano dei malumori interni. È noto che Giorgetti vorrebbe una linea più moderata, che Zaia tenga a distinguersi da Salvini, che molta vecchia guardia non abbia più voglia di restare in panchina e che sia in corso un dibattito sul rinnovamento dell'immagine del partito, a livello sia europeo sia nazionale. Ma queste non sono le premesse di una divisione.

 

 

AUTUNNO CALDO
La classe dirigente leghista è da sempre immune ai deliri narcisistici e agli impulsi autodistruttivi di cui invece è vittima quella progressista. Giorgetti è in Parlamento da 25 anni, sempre ricoprendo incarichi di alto livello, e se avesse avuto i numeri o l'intenzione per giocare da front-man, ci avrebbe già provato. Zaia è abbastanza esperto per sapere che la Lega, consentendogli autonomia e visibilità, ne raddoppia la forza e la considerazione a livello nazionale. Stesso discorso vale per gli altri governatori, ex ministri o personalità di rilievo orbitanti intorno al Carroccio, dove ognuno sa, fin troppo bene, che qualsiasi divisione non farebbe che portare acqua a Fratelli d'Italia e alla Meloni e svuotare la bacinella di tutti. La Lega potrà scendere ancora, o più probabilmente risalire ora che è riscoppiata l'emergenza immigrazione, è ripartita la persecuzione giudiziaria nei confronti di Salvini, l'Italia non è più in emergenza sanitaria e sono sempre più evidenti le inadeguatezze del governo nel gestire la partita economica e le sue divisioni su giustizia, Europa, lavoro e ripartenza.

Ma qualunque sarà l'andamento futuro, Salvini può contare ancora sulla ricca dote di consensi che si è costruito e sul conseguente credito di cui gode presso i suoi. E poi c'è la prospettiva molto concreta che, al prossimo giro, il partito possa tornare al governo, stavolta con alleati più affidabili e omogenei di quanto non fossero Di Maio e i cinquestelle. Quello da cui l'ex ministro dell'Interno deve guardarsi almeno quanto Conte è l'autunno caldo, che probabilmente arriverà. Quando l'Italia si troverà a fare i conti con l'insuccesso delle politiche economiche del governo ed esploderà la rabbia sociale, il gioco della sinistra sarà imputare a Salvini e Meloni eventuali disordini, riproponendo il disco rotto della destra razzista e fascista. Salvini verrà provocato in piazza in cerca di una reazione. Le prove generali si sono avute tre-quattro settimane fa in Campania, quando il leader è andato a Castel Volturno e Mondragone, territorio fuori controllo in mano a profughi e immigrati, lasciati liberi di avvicinarglisi minacciosamente e sfidarlo. La sinistra e i suoi gangli nelle istituzioni sono pronti a tutto per non mollare il potere, anche a lasciare scatenare sommosse e battaglie urbane per poi gridare che Salvini avvelena il clima nel Paese.

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