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M5s, Pietro Senaldi: spariti ovunque tranne che in Parlamento

Pietro Senaldi
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Di Maio ha lasciato la guida di Cinquestelle otto mesi fa. Da allora i grillini hanno un reggente, Crimi, al quale però il moccolo si è sciolto tra le mani. Nel 2018 M5S trionfò alle elezioni politiche con il 34% dei consensi. L'anno dopo, alle Europee, erano già diventati la metà. Alle Regionali di domenica e lunedì scorso il miglior risultato dei pentastellati è stato in Campania, dove il loro candidato ha ottenuto il 10%. Altrove è andata ben peggio; in Veneto, l'aspirante governatore grillino si è fermato al 3%. Correttamente Di Battista, che ormai è il solo custode dello spirito di un tempo, ha definito la tornata elettorale la peggiore sconfitta nella storia del Movimento. Non l'unica però, visto che in due anni M5S ha perso una quindicina di elezioni regionali, comprese quelle in cui si è presentato insieme al Pd, e non ha vinto neppure un Comune di rilievo. I grillini sono spariti ovunque, tranne che in Parlamento, dove ormai sono sovra-rappresentati.

Il Movimento ora è diviso tra i pochi capi che sono pronti a vendersi al Pd, per fare una coalizione di sinistra che garantisca loro di conservare lo scranno, e la truppa, che non sa dove sbattere la testa e spera in Di Battista o in qualche altro messia che le restituisca una prospettiva di vita. Non occorre un genio per intuire che la situazione è incandescente. Tra Camera e Senato, ci sono trecento disperati senza arte né parte, molti dei quali senza un lavoro fuori dall'emiciclo, che, anche grazie alla decimazione degli onorevoli che hanno propiziato, non hanno orizzonte politico. Su questa armata allo sbando, intimorita e priva di competenze, si fonda la forza del governo. È una realtà grottesca, il potere dei più deboli.

 

La scommessa di Conte, e del Pd, è che per il sacrosanto terrore di andare a casa, i trecento morti che camminano sorreggano il governo mentre marciano verso il patibolo. Possibile, ma non probabile, e neppure auspicabile per il bene del Paese. La storia insegna che il peone, quando si approssima la fine della legislatura, diventa nervoso e pronto ai compromessi. La conseguenza è che la situazione in Parlamento diventa tellurica e può accadere ogni cosa, anche perché, giusto ieri, il fondatore Grillo ha sancito l'inutilità delle Camere affermando che, se dipendesse da lui, sottoporrebbe ogni legge al plebiscito. Solito democratico, da che non vince più, non vuol più che si voti.

IL CONGRESSO
In queste condizioni, qualunque fosse lo stato di salute di una nazione, non sarebbe il caso che il governo andasse avanti. Ed è ovviamente ancor meno auspicabile che resti in vita la maggioranza giallorossa stante l'agonia in cui versa l'Italia. M5S e Pd hanno poco in comune, tant' è che quando si presentano uniti al voto perdono. Per di più, i Cinquestelle non si sono divisi solo perché ormai non esistono più. Devono fare un congresso da otto mesi, ma nessuno vuol prendersi la patata bollente, tant' è che il senatore pentastellato Morra ha decantato ieri le meraviglie di un partito leadership-free, ovverosia privo di capo. Riferito a un Movimento che fino a poco fa aveva un guru, un garante e un leader, è una frase comica. Non esiste una linea. La sindaca di Torino, Appendino, ha lasciato il partito, ma non la poltrona, dopo una condanna penale. È stato abolito il divieto del terzo mandato per consentire alla Raggi di ricandidarsi ma le indiscrezioni delle ultime ore raccontano che ora M5S vorrebbe offrire il Campidoglio ai Dem per candidare la Lombardi in Regione Lazio.

GUAI IN VISTA
Il caos è totale ma non può che aumentare. Sono in vista solo guai. Si prendono poche decisioni, e tutte sbagliate. Pare che il Pd, che sostiene di aver vinto le Regionali, pretenda che M5S voti lo smantellamento dei decreti sicurezza di Salvini e magari anche lo ius soli. In compenso, i pentastellati vogliono obbligare i dem a rinunciare ai soldi del Mes per la sanità, gli unici che l'Europa ci darebbe praticamente gratis. A questa triste brigata l'Italia si appresta ad affidare i duecento miliardi del Recovery Fund, un debito che dovremmo restituire e che non finiranno di pagare in vita neppure i bimbi nati ieri. Come se non bastasse, i quattrini arriveranno a rate, e non da subito. Quelli che continuano a giungere in massa sono in compenso gli immigrati clandestini, che in base ai nuovi trattati europei non potremo più redistribuire tra gli Stati membri, a dimostrazione che il prezzo dell'aiuto Ue è l'obbligo di diventare l'ostello dei profughi di mezza Africa. Oltre che gestire i miliardi di Bruxelles, l'obiettivo della maggioranza sarebbe scegliere, tra un anno e mezzo, il sostituto di Mattarella al Colle, con il Pd che si illude di governare il gregge grillino alla deriva da una posizione di minoranza numerica.

 

Alla luce del referendum sul taglio degli onorevoli, permettere di nominare il capo dello Stato a un Parlamento non più rappresentativo degli elettori sarebbe l'ennesimo abominio. Aggravato dal fatto che, con la nuova formazione ridotta delle Camere, il peso dei delegati regionali nella scelta del presidente della Repubblica aumenta considerevolmente. Questo vogliono gli italiani, che si sentono più vicini ai poteri locali che a quelli nazionali. Prorogare l'agonia sterile della maggioranza per consentire a deputati delegittimati di guadagnare qualche stipendio in più e di minare la credibilità dell'unica istituzione alla quale gli elettori riconoscono ancora prestigio sarebbe autolesionista per il Quirinale e dannoso per la nazione. riproduzione riservata.

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