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Magistratura, il penalista Giuseppe Fanfani mostra il marcio delle toghe: "Ecco come arrestano le persone"

Giovanni M. Jacobazzi
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«Luca Palamara? Sono molto dispiaciuto per quello che gli è capitato. Luca, intendo essere chiaro, è un amico e resta tale». Giuseppe Fanfani, avvocato penalista e nipote del celebre Amintore, è un politico di razza. Eletto poco più che maggiorenne consigliere comunale nella Dc, è stato deputato dell'Ulivo e per dieci anni sindaco di Arezzo con circa il 60percento dei voti. Nominato componente laico del Csm in quota Pd dal 2014 al 2018, conosce molto bene le dinamiche della magistratura.

Onorevole, che giudizio ha della vicenda Palamara?
«Luca paga per gli errori del cosiddetto 'sistema'. Diciamo che paga per tutti».

Un capro espiatorio?
«Guardi, Palamara al Csm ragionava con tutti. E riusciva a sintetizzare i desideri di tutti. È ovvio che non lavorava da solo. Interloquiva con i rappresentanti di tutte le correnti».

Sono così importanti le correnti per fare carriera in magistratura?
«Si. Un legame con le correnti lo devi avere per forza. Voglio raccontarle un episodio che non sa nessuno».

 

 

Prego.
«Appena nominato al Csm venne da me il vice presidente Giovanni Legnini (Pd) e mi chiese di fare il presidente della Commissione per gli incarichi direttivi. Si tratta della Commissione più importante, la più ambita, quella che si occupa delle nomine dei magistrati (incarico poi ricoperto dal 2017 al 2018 da Palamara, ndr)».

E lei?
«Gli risposi di no. Ero appena arrivato al Csm e non mi sentivo sufficientemente preparato per un ruolo di tale responsabilità».

Cosa successe allora?
«Venne scelta la consigliera di Cassazione Maria Rosaria Sangiorgio (esponente di Unicost, la corrente di Palamara, ora giudice presso la Corte Costituzionale) ed io feci il vicepresidente. Dopo qualche mese, eravamo quindi nella primavera dell'anno successivo, decisi però che era giunto il momento di dimettermi e scrissi una lettera a Legnini».

Perché?
«Non stavo bene, provavo una grande sofferenza individuale per il metodo con cui venivano fatte le nomine».

Il 'sistema' raccontato da Palamara?
«Ecco, appunto».

 

 

Cosa successe, quindi?
«Legnini mi pregò di aspettare. "Mi metti in grande difficoltà se ti dimetti adesso", mi disse, chiedendomi di attendere fino al rinnovo della composizione della Commissione. Cosa che feci ma con grande disagio».

Lei è stato anche giudice della sezione disciplinare del Csm, la sezione che ha radiato lo scorso ottobre Palamara dalla magistratura. Anche in quella sezione esiste la 'pressione' delle correnti?
«Non ho le prove e non posso essere cattivo, però ho visto da vicino il comportamento dei magistrati giudici».

Tipo?
«Ho avvertito quelle piccole cose, come dire, quelle sfumature. "Perché - ho sempre pensato - quel magistrato mette tutta quella foga nel difendere il collega?", cose così. Come dice Andreotti a pensar male si fa peccato ma si indovina spesso».

Si riuscirà a riformare il Csm? Lo ha chiesto anche il capo dello Stato.
«Lo spero ma sono scettico».

Si può uscire dall'esasperazione del correntismo e dalla lottizzazione delle nomine?
«La prima cosa da fare è cambiare immediatamente il sistema elettorale dei componenti togati del Csm. Serve il sorteggio. Ma solo fra i magistrati 'apicali' con una certa anzianità di servizio e che non abbiano più problemi di carriera. L'incarico di consigliere dovrà essere di fatto l'ultimo. Solo in questo modo si potrà garantire una loro maggiore autonomia. Il sorteggio fra tutti i magistrati non funzionerebbe».

Il disciplinare del Csm funziona? Chi sbaglia paga?
«No. Va necessariamente affidato all'esterno. Ad esempio alla Corte Costituzionale».

E le valutazioni di professionalità delle toghe?
«Idem. All'esterno. Come può funzionare un sistema di valutazione dove il 99 percento dei magistrati ha giudizi positivi?».

Concorso in magistratura: 'esternalizzato' anche questo?
«Sicuro. Le influenze delle correnti sulle nomine dei commissari di concorso sono fortissime».

Lei, pochi lo ricordano, fu l'unico ad aver difeso cinque anni fa l'allora sindaco di Lodi Simone Uggetti (Pd).
«Non si possono mettere in galera le persone con quella leggerezza. Io ho fatto il sindaco per anni e conosco bene i limiti e la difficoltà del ruolo. Premesso che gli illeciti non vanno commessi, un conto è fare un reato nell'interesse della collettività, un altro se l'interesse è personale».

Nel caso di Uggetti la Corte d'Appello ha escluso anche la seconda ipotesi.
«Ai magistrati serve prudenza e capacità. Non è sufficiente vincere un concorso per diventare padroni del mondo».

Parole forti.
«Non voglio fare il maestro ma alla mia età sono sereno e distaccato quanto basta per giudicare bene. Oggi nessuno vuole più fare il sindaco. Bisogna essere dei matti. I sindaci dei paesi sotto i 5mila abitanti, che sono la maggioranza, svolgono ogni genere di attività per un migliaio di euro e rischiano tutti i giorni un procedimento penale».

 

 

Torniamo all'arresto di Uggetti.
«Mi sono sentito offeso come cittadino. Fu una reazione motivata: conoscevo la materia e avevo letto l'ordinanza di custodia cautelare, eccessiva a dir poco».

Lei voleva aprire una pratica per verificare l'operato dei magistrati di Lodi. Ma i togati del Csm e l'Anm l'attaccarono violentemente.
«E ci rimasi malissimo. Mi dissero che nel merito delle decisioni dei magistrati non può entrare nessuno».

L'incensurabilità di merito?
«Già».

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