Congiuntivi, plurali e doppie dimenticate: gara di strafalcioni, così gli italiani maltrattano ogni giorno la nostra lingua
Se vi può consolare, anche Dante, Manzoni e la Fallaci usavano espressioni linguistiche che oggi sono considerate errori, e quindi potreste sempre spacciarle come citazioni colte. O almeno come la dimostrazione che la lingua cambia nel tempo e forme corrette possono diventare sbagliate e viceversa, con usi errati delle parole che alla lunga si cronicizzano e diventano norma. Per questo forse neppure il Sommo Poeta avrebbe disprezzato il modo in cui vocaboli, accenti e apostrofi vengono (bis)trattati e traditi dai parlanti e scriventi in italiano, dando vita a mostruosi, e non meno divertenti, strafalcioni. Questo destino del nostro idioma rientra in ciò che la mostra Dante. Gli occhi e la mente. Un'Epopea Pop, aperta al Museo d'arte della Città di Ravenna (Mar) a partire dal 25 settembre, e a cura del linguista Giuseppe Antonelli, esibisce come ulteriore lascito dantesco: un'eredità varia, fatta di parole, suoni e immagini, trasformati e deformati nel tempo, a testimonianza non di un oltraggio al poeta ma della vitalità della sua lingua e del suo personaggio. Con questo approccio possiamo guardare con occhio più benevolo ai tanti errori che connotano il nostro uso di grammatica e sintassi. E sui quali Antonelli si è divertito a giocare in un incontro al Festivaletteratura di Mantova, intitolato Una grammatica mostruosa!, in omaggio al Come farsi una cultura mostruosa di Paolo Villaggio. «Parliamo di problemi», nota Antonelli, «legati perlopiù alla lingua scritta: oggi, grazie agli smartphone, scriviamo molto più che in passato e quindi sbagliamo di più; e poi, grazie ai social, rendiamo pubblico ciò che scriviamo cosicché i nostri errori, prima nascosti, ora sono molto più visibili».
SCIVOLONI ILLUSTRI - E allora non è ozioso fare una rassegna degli scivoloni più frequenti e più comici, che a volte hanno una lunga tradizione alle spalle, altre volte sono destinati ad avere un futuro. Galeotta è spesso la "i" prima della vocale finale. Si pensi al plurale di «provincia»: si dovrebbe dire «province», ma tanti scrivono «provincie». A rovescio vale il caso di «ciliegia»: al plurale è «ciliegie», eppure è frequente leggere «ciliege». Ci sono esempi celebri in questo senso: a Roma esiste una piazza chiamata «Piazzale delle Provincie», mentre Oriana Fallaci ha intitolato un suo romanzo, uscito postumo, Un cappello pieno di ciliege. «Chi sbaglia, in un certo modo, può essere assolto», avverte Antonelli. «A lungo le regole dell'italiano, basandosi sul latino, hanno previsto queste forme. È stato un linguista, Bruno Migliorini, alla metà del '900 a innovare le regole e a stabilire la versione oggi corretta: "province" e "ciliegie"». A proposito di plurali, ci sono parole che ne hanno più d'uno. Cosicché in tanti inciampano sul loro uso. Alcuni, forse perché hanno un muro nella testa come cantava Fossati, confondono «muri» con «mura»: i primi sono le opere murarie considerate separatamente (i muri interni di casa), mentre le mura l'opera muraria nel suo complesso (le mura della città). Il discorso non fila neppure in merito a «fila». Si suole sentire «serrare le fila», ma l'espressione è sbagliata perché il plurale di «fila» è «file». Diverso è invece il caso di «tirare le fila» o «riprendere le fila del discorso». Qua l'uso è corretto perché «fila» è un plurale di «filo». Non può certo sbrogliare questa matassa di fili linguistici chi soffre di "congiuntivite" cronica. I sintomi sono almeno tre. «C'è chi ha difficoltà con la consecutio temporum», rileva Antonelli. «E allora adopera frasi come "Vorrei che tu mi dica" oppure "Chi lo sa, alzasse la mano". È sbagliato in entrambi i casi, perché si dovrebbe dire: "Vorrei che tu mi dicessi" e "Chi lo sa, alzi la mano"». Un'altra manifestazione, fortunatamente più rara, della "malattia" è l'uso fantozziano del congiuntivo esortativo: da cui i vari «vadi», «sii», «facci». Possono sembrare boutade da film comico, ma in realtà «hanno dei precedenti illustri», ricorda Antonelli. «Alla seconda persona singolare, erano usati nel '300 da Dante, Boccaccio, Petrarca, nel '500 vennero codificati da Pietro Bembo e nell'800 erano ancora usati da Leopardi». La terza manifestazione della "congiuntivite" è il ricorso a verbi come «dasse» e «stasse», anziché «desse» e «stesse». «Qui la colpa», analizza il linguista, «non è solo dell'ignoranza, ma anche dell'analogia con il verbo all'infinito: dare, stare... "Dasse" e "stasse" sono formule usate da tempo ma non sono state accettate dalla norma. In altri casi, invece, l'analogia ha cambiato la lingua. Una forma analogica è ad esempio l'imperfetto del tipo "facevo", "andavo", la cui "o" finale richiama quella della prima persona del presente: "faccio", "vado". Prima che Manzoni sciacquasse i panni in Arno, essa era considerata un errore, perché si preferiva la forma etimologica "io faceva", "io andava"». Capitolo a parte merita l'uso di congiunzioni astruse e poco astrali. Si veda il ricorso a «piuttosto che» in luogo di «o, oppure». «"Piuttosto che" presuppone la preferenza per qualcosa rispetto a un'altra», sottolinea Antonelli. «"Oppure" indica invece l'alternativa tra due scelte entrambe valide. Sempre più spesso però "piuttosto che" è usato al posto di "o". È un uso improprio ma anche un sintomo della lingua in evoluzione: pure "siccome" alle origini voleva dire "così come", poi ha assunto il significato di "poiché"».
DOPPIE, ACCENTI E ALTRI CASI - Frequenti sono gli svarioni sulle doppie: capita di leggere «accellerare» al posto di «accelerare», «sopratutto» in luogo di «soprattutto». Parimenti non è raro vedere due parole diverse ridotte a una: «affianco» rimpiazza il corretto «a fianco» e «apposto» toglie il posto ad «a posto». «Sono errori anche questi», ci dice Antonelli, «ma chissà che un giorno non subiscano la sorte di "nonostante", che nacque separato come "nonostante"». Se fioccano poi accenti tonici ad capocchiam («persuàdere» anziché «persuadère»), è lecito chiedersi il perché della natura ballerina dell'accento grafico di «perché». L'avverbio viene spesso scritto con accento grave (perchè) e non acuto (perché). E questo è un errore, anche se non grave. «La colpa», spiega Antonelli, «è del modo in cui accentiamo quando iniziamo a scrivere a scuola: mettiamo sopra la vocale un vago trattino, che non si capisce se vada verso l'alto o verso il basso». Mentre ci si imbatte quotidianamente nella confusione tra «ne», «né» e «n'è», e assistiamo alla dipartita dell'apostrofo in sgorbi linguistici come «un pò» e l'imperativo «fà», Antonelli si diverte a immaginare, come estrema deriva, uno scenario fantozziano: quello per cui «l'aggettivo "prestante", anziché aitante, passando per il participio presente "colui che presta", potrebbe finire per essere interpretato come "uomo generoso" o addirittura "usuraio"». Orsù, fate presto e siate "prestanti" nel salvare la lingua italiana.