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Benedetto Croce? Rileggerlo per ricordarsi cos'è il liberalismo: la civiltà separa pubblico e privato

Corrado Ocone
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Che l'uso politico del caso Morisi sia l'ennesimo indice di una barbarie radicata, sarebbe a tutti evidente se vivessimo in un'altra epoca e in un altro contesto storico. L'età moderna, quella che ci ha dato lo Stato di diritto e il liberalismo, ha sempre distinto nelle sue classi dirigenti la morale dalla politica. La politica è in democrazia soprattutto rappresentanza di interessi, che sta al leader cogliere ed esprimere. Cosa che ha magnificamente fatto negli anni scorsi Matteo Salvini con problemi, quali l'immigrazione e la sicurezza pubblica, che le altre forze politiche sottovalutavano. È da qui che è nata la forza di un partito che dal 4% dei voti è diventato alle ultime Europee (solo due anni fa) il primo partito italiano.

Va dato atto alla visione e all'intuito di Salvini avere individuato e cavalcato con continuità questa linea, avvalendosi anche di uno staff comunicativo di prim' ordine che proprio a Morisi faceva capo. Il tecnico, anche di genio, come Morisi sicuramente è, deve appunto tradurre in fatti (mediatici in questo caso) la visione del capo. È il suo ruolo, e su questo va giudicato. Poi, cosa sia e cosa faccia nella vita privata, non è secondario certo, ma è fattore che va giudicato su un altro terreno, quello appunto morale, ove voce in capitolo ce l'hanno i confessori e, se ci sono di mezzo reati (nel caso di Morisi solo ipotizzati), i magistrati. Non è una caso che la nostra cultura abbia creato la figura del genio sregolato, che trovava nella sua sregolatezza addirittura la linfa e il vigore che lo portavano a ottenere nella professione i risultati più eccelsi. Benedetto Croce, il grande teorico del liberalismo, porta l'esempio, in Etica e politica, di un grande (e liberale) esponente dei partito inglese dei whig, Charles James Fox (1749-1806). Egli, da segretario di Stato agli Esteri, si schierò su posizioni antischiaviste e appoggiò la rivoluzione americana.

Eppure Fox, scrive Croce, era «dedito alla crapula e alle dissolutezze». La sua era una «infelice costituzione fisiologica e psicologica, che per operare aveva bisogno di quegli eccitanti odi quegli sfoghi. Lo si deve deplorare, ma con la consapevolezza che in questo modo», continua Croce, «non si è detto nulla contro l'opera politica che il Fox compié e, se egli giovò al suo Paese, l'Inghilterra ben gli fece largo nella politica, quantunque i padri di famiglia con pari prudenza gli avrebbero dovuto negare le loro figliuole in ispose». Un esempio che può essere traslato in ogni attività umana, compresa quella del comunicatore politico, e che oggi, a soli cento anni, ci sembra quasi arcaico e primitivo, sicuramente "inattuale". E invece non è, e non dovrebbe esserlo.

Oggi, in particolar in Italia, e non solo in politica, il diaframma che separava pubblico e privato, è saltato. La stupida utopia sessantottina che voleva che "il privato è politico", favorita da vecchi e nuovi media, è diventato pane quotidiano. Persino le aziende redigono "codici etici" che spesse volte pretendono di anteporreal profitto, cioè a nientemeno che alla creazione della ricchezza comune. La nostra società fruga morbosamente nelle vite private e fa tracimare quanto trova, o crede di aver trovato in esse, nella vita pubblica. È un fatto, ma è anche qualcosa di non indolore. Su quella rigida separazione si fondava, infatti in ultima istanza, la libertà dei moderni. Indietro, certo, non si torna. Ma porsi qualche domanda e soprattutto conservare quella libertà e nella misura del possibile tutto il buono e saggio che era nel vecchio mondo non sarebbe inessenziale.

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