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Empatia, una virtù. Ma “sentire troppo” può anche logorare

Dopo aver attraversato i sentieri accidentati dell’antipatia e quelli, spesso illusori, della simpatia, ora vale la pena addentrarsi in un territorio più sottile e prezioso: l’empatia
di Steno Saridomenica 19 ottobre 2025
Empatia, una virtù. Ma “sentire troppo” può anche logorare

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Dopo aver attraversato i sentieri accidentati dell’antipatia e quelli, spesso illusori, della simpatia, ora vale la pena addentrarsi in un territorio più sottile e prezioso: l’empatia. Parola tanto pronunciata da diventare quasi un sussurro vuoto nel frastuono pubblico, eppure importante per capire ciò che davvero ci tiene in piedi come società: la capacità di sentire l’altro senza diventare l’altro. Cos’è, dunque, l’empatia? Il termine deriva dal greco “empatheia”, che significa letteralmente “sentire dentro”. È composta da “en” (“dentro”) e “pathos” (“sentimento”, “sofferenza”). Indica quindi la possibilità di partecipare, nel profondo, all’esperienza emotiva dell’altro.

È un movimento interiore che ci permette di intuire pensieri, fragilità e bisogni altrui, senza giudicare e senza annullare se stessi. Una funzione complessa dell’intelligenza emotiva che favorisce l’ascolto che coinvolge la mente, e soprattutto il cuore, non quella delle frasi fatte, ma quella che si educa nel silenzio e nell’attenzione. L’empatia si manifesta nei gesti più semplici: quando tratteniamo una risposta irritata per cogliere la fatica nascosta dietro un comportamento scontroso; quando ascoltiamo una sofferenza senza cercare di risolverla subito; quando entriamo in un dialogo senza volerlo controllare. Ed è proprio per questo che è difficile esercitarla. Viviamo in un tempo che premia la prestazione, non la presenza. Siamo più connessi che mai, ma sempre meno disposti a sentire davvero. Ascoltiamo per rispondere e non per comprendere. Reagiamo più per difenderci che per condividere. L’empatia autentica invece richiede tempo e la disponibilità ad accogliere il sentire altrui, anche quando ci turba o ci mette in discussione.

È più comodo indossare la corazza dell’indifferenza, che protegge: «Se non mi lascio coinvolgere, non soffro». Oppure la maschera dell’efficienza, che tranquillizza: «Se risolvo il problema in fretta, non devo entrare nel caos emotivo dell’altro». Sono strategie di difesa, spesso inconsapevoli, volte ad evitare il peso del coinvolgimento emotivo, il disagio della vulnerabilità, e la complessità dell’incontro umano. Ma attenzione: come ogni virtù, anche l’empatia comporta rischi. Senza consapevolezza e limiti chiari, può diventare un boomerang emotivo. Troppa empatia mal gestita può condurre al burnout, alla confusione identitaria, al cosiddetto “contagio emotivo”. Sentire troppo, senza saper elaborare, logora. L’arte sta nel saper dosare: sentire con, ma non fondersi in. Come coltivarla, allora, senza esserne sopraffatti? Anzitutto rallentare ricordando che l’empatia non nasce nella fretta. Poi educarci ad un ascolto autentico riconoscendo i nostri limiti e che non possiamo salvare tutti, ma che possiamo esserci. Infine accettare la complessità dell’altro senza volerla semplificare per comodità. Qualcuno ha detto: “Sii gentile, perché ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla”. Questa frase ci ricorda che ognuno porta con sé battaglie invisibili agli altri. Essere gentili quindi, un gesto di responsabilità morale che sospende il giudizio e riconosce nell’altro la stessa fragilità che abita in noi.