Perché gli Usa decollano e l'Europa no
La guerra contro la recessione è finita. Negli Stati Uniti che ieri hanno ritoccato al rialzo i dati della crescita del pil del terzo trimestre: più 5 per cento, il risultato migliore degli ultimi dieci anni, un balzo in avanti che permette a Barack Obama di definire il 2014 “l'anno della svolta”. La performance è solo l'ultimo dei regali sotto l'albero di Times Square: Wall Street si avvia a chiudere l'anno con risultati record (+12,3% l'S&P, +8% abbondante il Dow Jones); il calo dei prezzi del greggio, che pure indebolisce gli “sceicchi” del Texas e del Dakota che pompano lo shale oil, rappresenta un grande beneficio che permette di alzare le previsioni di crescita di almeno mezzo punto. L'orizzonte del greggio resta nero. Visto che ieri l'Opec ha dichiarato ufficialmente guerra all'America confermando di non tagliare la produzione anche con un barile a 20 dollari. Secondo quanto riportato dalla Bbc,il ministro del petrolio saudita Ali al-Naimi, parlando per il Middle East Economic Survey ha detto:«Che scenda a 20, 40, 50, 60 dollari è irrilevante» aggiungendo che il mondo potrebbe non vedere più il greggio a 100 dollari. Eppure, nonostante ciò, il biglietto verde festeggia. Oggi vale il 10 per cento in più di un anno fa rispetto all'euro. A sottolineare la diversa andatura con lavecchia Europa ha contribuito ieri pure il fantasma di Atene che torna a far paura a banchieri e politici. Il secondo voto del Parlamento greco per la novità del nuovo presidente non ha avuto positivo: il candidato del premier Samaras, l'ex commissario Ue Dimas, è fermo a 168 voti contro i 180 necessari. Delle due l'una: o lunedì, data dell'ultimo voto in aula, uscirà dalle urne il nome del primo cittadino della repubblica, oppure si andrà ad una campagna elettorale che si annuncia senza esclusione di colpi. Anche all'euro, possibile se non probabile vittima in caso di affermazione della lista di sinistra Syriza. Insomma, mentre gli Usa volano, il destino dell'eurozona è nelle mani delle alchimie parlamentari di Atene, Paese che vale sì e no il 2% del pil europeo. È come tanto per fare un paragone, se le sorti del dollaro dipendessero dall'esito del voto locale in Alaska. E' forse questa la spiegazione della diversa velocità tra l'efficacia delle strategie di politica economica Usa e i vincoli che ingessano la Ue. A partire da Mario Draghi, costretto a complessi equilibrismi per far digerire alla Bundesbank un'operazione di Quantitative Easing che possa assomigliare alla terapia adottata negli Usa prima da Ben Bernanke (repubblicano) poi da Janet Yellen, democratica che ha inaugurato il suo mandato, più o meno un anno fa con una lunga telefonata a tre operai di Chicago iscritti alle liste di disoccupazione, segnale eloquente della decisione di orientare la banca centrale alla lotta contro la disoccupazione. Certo, a spiegare la resurrezione dell'economia Usa contribuisce senz'altro il boom dello shale gas, soprattutto perché che ha consentito di procedere ad una reindustrializzazione rapida dell'economia a stelle e strisce favorita dal minor costo dell'energia ma non di meno dall'accoglienza garantita alle nuove imprese, tra cui spiccano un gran numero di multinazionali tedesche, in fuga dalla madre patria, ossessionata solo dal pareggio di bilancio, ma non dall'emergenza lavoro. di Ugo Bertone