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Ilva, perché non deve diventare il nuovo bidone di Stato

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Annarita Digiorgio
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Che Acciaierie d’Italia, la joint venture tra Invitalia e ArcelorMittal voluta nel 2020 da Pd e 5stelle, non abbia liquidità finanziaria è un dato di fatto. Secondo il presidente Bernabè ciò è dovuto alla non bancabilità dell’azienda. A sua volta dovuta al sequestro in corso dal 2012. Del resto la procura di Taranto nella sentenza di primo grado contro la famiglia Riva con cui ha ordinato la confisca degli impianti (se pur oggi di diverso proprietario) ha scritto che neppure l’Autorizzazione Integrale Ambientale (la legge che stabilisce i criteri impiantistici ed emissivi cui la fabbrica deve sottostare per funzionarie) garantisce la sua “legalità”. A quel punto, se non vale la Legge, non vale più niente. Chi rischia di finanziare un’azienda che da un giorno all’altro può essere oggetto di chiusura arbitraria di un giudice?

Per questo il governo Meloni è intervenuto con due importanti decreti prima a febbraio poi a luglio, per garantire la prosecuzione dell’attività anche in caso di confisca. Provvedimenti considerati non sufficienti dai creditori dato che, come abbiamo visto in questi giorni col giudice di Catania, qualunque magistrato può infischiarsene delle leggi dello stato. Come già accaduto su Ilva. Che proprio alla decisione dell’allora governo Conte di togliere lo scudo penale deve l’attuale asset societario: dopo aver promesso «la causa del secolo» ad ArcelorMittal, l’avvocato del popolo propose l’ingresso di Invitalia per nascondere il deconsolidamento della società e i 1800 esuberi dell’amministrazione straordinaria.

 

 

 

IL PIANO AMBIENTALE

È chiaro che un’azienda che non ha circolante per pagare fornitori, energia e capex, non produce. Eppure oggi Ilva potrebbe farlo: due mesi fa, come confermato dal Ministero dell’Ambiente, ha completato, secondo il cronoprogramma previsto dall’ultimo dpcm del 2017, il piano ambientale che poneva il limite ai 6 milioni di tonnellate d’acciaio. E oggi è in attesa della nuova Aia che le consentirebbe, con 3 altoforni e due elettrici, di arrivare agli 8 milioni di tonnellate del break even, come previsto dal piano industriale presentato a dicembre 2020 dall’allora ad di Invitalia Domenico Arcuri alla presenza dei ministri Gualtieri e Patuanelli. E mai messo in discussione da nessuno. Il resto, acciaio green, decarbonizzazione, idrogeno, sono chiacchiere di Michele Emiliano e chi gli va dietro. Ed è stato il commissario Von Der Leyen a scrivere che il Pnrr non avrebbe mai potuto finanziare un impianto hard to abate a gas, come voleva fare Draghi su Ilva. Per questo ritirato da Fitto.

È vero dunque, come dice l’ad Lucia Morselli, che l’azienda oggi è migliore di quattro anni fa, quando la copertura dei parchi minerari, dei nastri trasportatori, i filtri meros, e tutti gli altri adeguamenti ambientali non c’erano. Per sei anni l’amministrazione straordinaria li aveva rimandati grazie a decreti legge che puntualmente ne posticipavano la realizzazione. Da quando nel 2014 l’allora governo Letta decise di espropriare preventivamente l’azienda ai Riva per commissariarla, senza risanarla. L’adeguamento è avvenuto dal 2018, grazie ai due miliardi investiti da ArcelorMittal. Ora però serve lo sprint produttivo, e quindi il revamping dell’altoforno 5 che da solo è in grado di produrre 4 milioni di tonnellate d’acciaio con le nuove tecnologie. E successivamente la costruzione di due forni elettrici.

Ma per farli c’è bisogno di liquidità che l’azienda non ha. È necessario quindi un prestito ponte, che l’opposizione e i sindacati non vogliono venga dato al privato. D’altra parte però nessun privato accetterebbe mai di perdere risorse in una quota di minoranza con un pubblico che non sa fare acciaio, ma che risponde alla politica. Per cui l’unica soluzione, prevista da un decreto voluto dal ministro Urso a marzo, è l’amministrazione straordinaria. La seconda dopo quella ancora in corso dal 2015 con centinaia di fornitori insediati al passivo per milioni di euro che non rivedranno mai. Più o meno gli stessi che perderebbero altri cento milioni oggi. Mentre i commissari e i loro consulenti venivano lautamente compensanti insieme ai desiderata di politici e sindacalisti, tutti rigorosamente coperti dai bilanci che, per statuto delle amministrazioni straordinarie, sono omissis. Per questo ieri le aziende dell’indotto hanno scritto al presidente Meloni di evitare un altro “Bidone di Stato”. Infatti quanto ha perso Ilva negli anni di gestione diretta dell’amministrazione straordinaria, dimezzando la produzione senza investimenti, non l’abbiamo mai saputo. Basterebbe questo per evitarne un’altra insieme alla morte definitiva di llva.

 

 

 

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