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Maurizio Molinari sfiduciato dalla redazione, la guerra degli Elkann travolge "Repubblica"

Sandro Iacometti
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I rapporti, va detto, non sono mai stati idilliaci. Anche se gli scontri più duri sono quasi sempre arrivati per colpa dell’editore. Quel John Elkann che con la sua Exor dal 2020 ha tolto i quotidiani ai De Benedetti assumendo il controllo del gruppo Gedi. Lo scorso luglio la pietra dello scandalo fu Alain Elkann (padre di John) e il suo articolo contro «i giovani lanzichenecchi» che gli avevano rovinato il viaggio in prima classe esibendo vestiti casual, cappellini da baseball, telefonini di ultima generazione (con tanto di auricolari) e toni di voce non adeguati alla solennità del contesto. Il direttore Maurizio Molinari, guarda un po’ la stranezza, si è rifiutato di pubblicare una nota di presa di distanze da parte della redazione. Così i giornalisti hanno fatto una bella assemblea e hanno sfornato un comunicato sindacale non censurabile in base all’articolo 34 del Ccnl del settore: «Insistiamo nel voler mettere nero su bianco la nostra piena dissociazione rivolgendoci direttamente alle lettrici e ai lettori di Repubblica, come noi rimasti in grandissima parte esterrefatti da quanto hanno letto» e pretendiamo «un pieno ripristino delle corrette relazioni sindacali con la direzione del quotidiano» perché non siamo «disposti a tollerare nuove mancanze di rispetto nei confronti della propria rappresentanza democraticamente eletta».

Da allora le cose non hanno fatto che peggiorare. Le copie sono scese, gli esuberi aumentati, il digitale non è decollato. E, soprattutto, gli Elkann, un po’ come accade con Stellantis, hanno iniziato a dare la sensazione di volersi liberare in fretta di tutto ciò che riguarda l’Italia, giornali compresi. Per carità, ipotesi mai confermata dai diretti interessati. Che anzi un anno fa, in un incontro ufficiale, a domanda diretta, avevano smentito l’intenzione di procedere alla cessione di ulteriori testate, dopo la vendita di alcuni quotidiani locali e del settimanale l’Espresso. Posizione ribadita anche qualche settimana fa di fronte ad una pioggia di indiscrezioni. Poi è arrivata la notizia ufficiale dell’accordo con Msc di Aponte per il Secolo XIX. «Il progetto di dismissione di quello che è stato il più importante gruppo editoriale italiano continua», è l’incipit dell’ennesimo comunicato di fuoco del cdr di Repubblica, che si conclude denunciando che «un grande gruppo editoriale è stato di fatto smantellato, un pezzo alla volta, e questo stillicidio di voci, illazioni e poi vendite è estenuante. Non abbiamo più fiducia nelle rassicurazioni di questo management e di questa azienda, che continua la strada dei tagli e del disimpegno, non avendo a cuore la nostra missione quotidiana, cioè il giornalismo». Già, il giornalismo. Ed è proprio qui che si è consumato l’ultimo strappo, forse il più drammatico. L’inserto economico Affari&Finanza sarebbe dovuto uscire ieri mattina con un’apertura firmata da Giovanni Pons sui legami sbilanciati tra Italia e Francia in tema di politica industriale. Terreno minato per gli Elkann, accusati di aver svenduto la Fiat a Parigi. Ed ecco il risultato. Nella notte, a quotidiano già stampato, le copie (100mila) vengono mandate al macero. E nell’edizione ribattuta compare un articolo del vicedirettore Walter Galbiati dove titolo, catenaccio e contenuti vengono prudentemente ammorbiditi.

 


Non è la prima volta che un articolo scottante finisce nel cestino in zona Cesarini. Era già capitato con l’intervista a Ghali durante il Festival di Sanremo, bloccata questa volta un secondo prima della stampa perché Molinari si era accorto che nella lunga filippica a favore di Gaza non compariva mai la parola Hamas. «Un episodio grave che mina la credibilità della testata», aveva commentato il cdr, che stavolta, però è assato alle maniere forti. Convocata immediatamente l’assemblea, i giornalisti non solo hanno proclamato uno sciopero delle firme, ma hanno anche messo ai voti la sfiducia per il direttore Molinari perché «quanto avvenuto è l'ultimo episodio di una serie di errori clamorosi originati dalle scelte della direzione che hanno messo in cattiva luce il lavoro collettivo di Repubblica». Esito della consultazione: 164 sì, 58 no e 35 astenuti. Intendiamoci, la redazione non ha il potere di cacciare un direttore. Molinari può restare, anche sfiduciato, come fecero Tamburini e Riotta al Sole 24 Ore. Ma con un livello di tensione talmente alto le cose non possono che peggiorare. 

 

 

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