Hormuz è un’isola di appena 42 kmq e con 3000 abitanti. Non ha vegetazione autoctona e l’acqua potabile gli arriva dall’Iran continentale attraverso un acquedotto. Lo stretto che da essa prende il nome, con una caratteristica conformazione a gomito, è appena 60 km per 30 tra lo stesso Iran e la penisola Musandam, exclave dell'Oman nel territorio degli Emirati Arabi Uniti. Ma da questa strettoia bisogna passare per arrivare da quello che nel mondo è chiamato Golfo Persico e molti arabi definiscono Golfo Arabico, al Golfo di Oman, che porta nell’Oceano Indiano aperto.
Per un singolare capriccio della geologia, lungo le coste del Golfo Persico è estratto il 30% di tutto il petrolio mondiale, e c’è addirittura il 65% di tutte le riserve. E sempre sulle coste del Golfo Persico si affacciano il secondo, terzo, quarto e quinto produttori di gas del mondo. Tutta la costa nord del Golfo Persico appartiene all’Iran, mentre dall’altra parte si succedono Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Bahrein, Qatar e Oman, con un bel po’ di basi militari Usa. Oltre il possibile teatro di scontro, se Teheran per rappresaglia agli attacchi subiti chiude il budello, ferma il transito di almeno 20 milioni di barili al giorno. Con contraccolpi devastanti per l’economia mondiale.
Secondo il Financial Times, appunto, Teheran «potrebbe anche ricorrere a una guerra asimmetrica» chiudendo o interrompendo lo Stretto, come ha minacciato di fare in passato in caso di attacco, interrompendo così la via d’acqua che separa l’Iran dagli Stati del Golfo. Dopo l'attacco israeliano all’Iran la prima conseguenza economica è stato il balzo del prezzo del greggio, con il Brent che è tornato sopra i 74 dollari al barile per chiudere al +7%.
Un’impennata che non si vedeva dal 2022, quando la Russia invase l’Ucraina. Secondo JP Morgan se l’Iran dovesse bloccare il passaggio, i prezzi potrebbero arrivare a 120 dollari al barile, ma secondo altri potrebbe toccare i 200. Di lì passano anche i cargo carichi di Gnl che dal Qatar vanno in Europa, in Asia e in particolare in Cina. Proprio Pechino, che è la seconda economia al mondo dopo gli Stati Uniti, è un grande acquirente di petrolio iraniano: circa 1,5 milioni di barili al giorno. Se tali forniture dovessero interrompersi, la Cina sarebbe costretta a rifornirsi altrove, a prezzi più alti con conseguenze a catena per l’inflazione globale.
Va però detto che malgrado le minacce il passaggio non è mai stato chiuso, benché sulle sue rive si siano combattute guerre devastanti. In particolare, quella tra Iran e Iraq, e quella del Kuwait. A un certo punto, tra 1987 e 1988 l'Occidente mandò anche un po’ di navi da guerra per scortare le petroliere, dopo che i contendenti Iran e Iraq per uscire da un defatigante stallo che esauriva entrambi si misero ad attaccare anche il traffico marittimo neutrale, con battelli armati e mine. La Ue costituì allora un apposito nucleo di comando presso la sede del Consiglio Ueo a Londra, col compito di coordinare gli interventi navali europei e collaborare con gli Stati Uniti. Oltre a Regno Unito, Francia, Paesi Bassi e Belgio, con l'Operazione Golfo Uno mandò unità anche l'Italia, dopo che nella notte tra il 2 e il 3 settembre 1987 la motonave portacontainer italiana Jolly Rubino era stata attaccata dai Pasdaran al largo dell'isola di Farsi, col ferimento di alcuni membri dell'equipaggio. Le Fregate Grecale, Scirocco e Perseo, assistite dal rifornitore di squadra Vesuvio, dai cacciamine Milazzo Sapri e Vieste e dalla nave ausiliaria Anteo, furono poi avvicendate dalle fregate Lupo, Libeccio e Zeffiro e dal cacciamine Lerici; poi dalle fregate Aliseo Espero e Orsa e i cacciamine Loto e Castagno con il rifornitore Stromboli, cui si aggiunsero le fregate Euro e Sagittario.