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La sinistra batte tuttinella tecnica dell'arraffo

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Penati rappresentava il Pd moderato, moderno, vincente. Dopo l'indagine si è autosospeso ma non dimesso

Nicoletta Orlandi Posti
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di Maurizio Belpietro C'è stato un tempo in cui Filippo Penati era considerato l'uomo del futuro. Rappresentava l'ala moderata e presentabile della sinistra, quella vincente:  la sola che nel Nord leghista e berlusconiano fosse riuscita a rimediare qualcosa in più di una sconfitta. La conquista della Provincia di Milano nel 2004 gli aveva aperto le porte della politica nazionale: a Penati si rivolgevano i leader  del suo partito per capire la questione settentrionale. In breve era diventato l'unica speranza di resurrezione dei compagni in una terra che i compagni non li ha mai amati.  Adesso nel Pd fanno tutti a gara a dimenticarlo, ma in quel tempo non molto lontano il professore di ginnastica venuto dalla Stalingrado d'Italia era il simbolo della riscossa progressista. Per questo Pier Luigi Bersani, divenuto segretario del Pd, lo aveva voluto al suo fianco, nominandolo addirittura capo del suo staff, braccio destro dei suoi bracci destri. Del resto Penati era stato anche portatore di voti. Voti delle sezioni del Nord, voti alle primarie del partito, che Bersani vinse di larga misura battendo sia Dario Franceschini, il segretario uscente sia Ignazio Marino, il cardiochirurgo in prestito al Pd. Insomma, dopo Bersani veniva lui, in termini di prestigio e di potere. Poi però è scivolato sulla buccia di banana del sistema Sesto, ovvero del paese industriale alle porte di Milano in cui, da assessore prima e da sindaco poi, aveva mosso i primi passi da politico. Cittadina operaia con storiche fabbriche e molte aree dismesse, negli anni Novanta a Sesto San Giovanni c'era molto da costruire e Penati si destreggiò a meraviglia tra appalti e concessioni edilizie. Una disinvoltura eccessiva secondo i pm, i quali hanno dato retta a un imprenditore molto vicino all'ex numero uno che dice di averlo ricoperto d'oro, lui e i suoi amici, pardon: compagni.  Che di soldi ne girassero tanti è provato dai contributi che affluivano alla società culturale di cui Penati si era dotato in vista della sfida a Formigoni, al quale nel 2010 sognava di soffiare il posto. Ma forse non sono i soli, perché i magistrati sospettano che altro denaro - e questa volta tantissimo - sia girato anche per lo strano acquisto della Serravalle, la società che gestisce l'autostrada che collega Milano a Genova e le tangenziali del capoluogo lombardo. Ottanta milioni il guadagno per il venditore, che guarda caso era in buoni rapporti con i vertici della sinistra, tanto buoni dal partecipare contestualmente all'assalto a Bnl da parte di Unipol, quello che fece chiedere a Piero Fassino: «Abbiamo una banca?». Ora per la vicenda delle aree dismesse e delle concessioni edilizie, la Procura di Monza ha chiesto il processo per il comunista affarista di rito ambrosiano, convinta di avere le prove per farlo condannare. Per lo strano acquisto da un privato di una società che era già pubblica al cinquanta per cento ci vorrà invece del tempo. Vedremo dunque se il processo si farà e se davvero quegli ottanta milioni se li è intascati qualcuno del Pd. Penati nel frattempo si è dimesso dagli incarichi, o meglio: è stato convinto a dimettersi.  Dal Pd però non se ne è andato, si è solo autosospeso, sperando prima o poi di ritornare. Neanche dalla Regione, dove nel frattempo era stato eletto, si è allontanato: in consiglio c'è e ritira ogni mese lo stipendio. L'unica cosa che è cambiata è che non può dirsi ufficialmente del Partito democratico e dunque non partecipa alle riunioni del partito. Dimissioni finte, insomma, in attesa che il tempo passi e che la prescrizione arrivi. A che tutto vada nel dimenticatoio dell'archiviazione, del resto, non manca molto e una grossa mano gliel'ha data la lentezza con cui la Procura - non quella che indaga ora ma quella di Milano -  si è mossa, liquidando le denunce che in passato erano state presentate e ignorando i sospetti sulla spregiudicata gestione della Serravalle.  Comunque vada la faccenda sotto il profilo giudiziario, una cosa però si può dire da subito, cioè che l'ala moderata della sinistra, quella vincente, in questa storia ha mostrato il suo vero volto, dando un calcio alla favola della presunta diversità. Se c'è una cosa in cui gli eredi di Togliatti  sono diversi dagli altri partiti è che quando c'è da arraffare lo fanno per bene, senza improvvisazione. A differenza degli altri si fanno pagare con eleganza, con un contratto registrato o un'operazione finanziaria. Non mettono in tasca denaro nascosto nei pacchetti di sigarette, ma regolano i conti tramite banca e bonifici. Si dirà: Penati non è il primo comunista a cadere nella rete. Vero: nel passato, però, se c'era qualcuno che rubava era sempre all'insaputa del partito e alla fine il partito riusciva pure a fare la vittima. Qui  non c'è un compagno che sbaglia, semmai c'è un sistema che è sbagliato. Come spiega Andrea Scaglia a pagina 2, qui ci sono le cooperative rosse, gli imprenditori rossi, gli architetti rossi, i portaborse rossi. Dunque è il sistema rosso che va alla sbarra. E, prescrizione o meno,  se ci sarà il processo  ci sarà da divertirsi. L'uomo del futuro rischia di riportare il Pd al passato. Più che alla svolta moralizzatrice di Enrico Berlinguer, all'oro di Mosca.   

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