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I tecnici fanno scappare il lavoro

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L'esecutivo sembra impassibile di fronte all'aumento di chi è senza impiego. Ma anche magistrati e opinione pubblica hanno le loro colpe

Nicoletta Orlandi Posti
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di Maurizio Belpietro Di fronte al nuovo dato sulla disoccupazione diffuso dall'Inps  (quasi tre milioni i senza lavoro, 100mila in più nel solo mese di  ottobre), il ministro dell'Economia Vittorio Grilli non si è dimostrato molto stupito. «Se l'economia peggiora non si può pensare che l'occupazione migliori» è stato il suo laconico commento.  Ma l'uomo dei conti subentrato a Giulio Tremonti alla scrivania che fu di Quintino Sella, oltre a non manifestare alcuna sorpresa, ha vaticinato dati ancor più neri per il prossimo futuro, prevedendo percentuali di gente a spasso superiori all'11 per cento nel prossimo anno. Ora, sarà normale che gli economisti non tradiscano le emozioni di fronte ai numeri, soprattutto se quei  dati significano la vita di milioni di persone, ma l'idea che il ministro dell'Economia accolga con tutta tranquillità - e con le mani in mano - la notizia che centomila uomini e donne hanno perso il lavoro e altri ancora lo perderanno, ci ha lasciati un po' sgomenti. Certo, il governo Monti può vantare la regolarità nei conti e il rispetto dei parametri di Maastricht e una contenuta flessione dello spread dei titoli di Stato:  ma cosa ce ne facciamo dei numeri a posto se poi un italiano su dieci non sa come campare e come mantenere la propria famiglia? Mi viene in mente a questo proposito una frase del professore Paolo Savona, già all'ufficio studi della Banca d'Italia e ministro dell'industria del governo Ciampi: «Al venti per cento di disoccupati io preferisco il venti per cento di inflazione, almeno quella non è da sfamare».  Già, l'insensibilità con cui questo governo di tecnici sta affrontando l'argomento della perdita di  salario è allarmante. Per loro forse i disoccupati sono numeri sulla carta di una delle tante relazioni presentate, ma non sanno che se la gente non ha niente da mangiare il problema non è più solo una questione di numeri, ma diventa un problema sociale e di ordine pubblico: cosa che, in un Paese come il nostro, è assai pericolosa. Tuttavia, bisogna riconoscere che se i professori assistono in silenzio e senza fiatare all'aumento delle persone che restano senza lavoro, non è che politici, sindacati, magistrati e la stessa opinione pubblica facciano molto di più. Anzi. In qualche caso oltre a non muovere un dito per fermare il declino e promuovere l'occupazione, si danno da fare per farla scappare. Alludiamo a un paio di casi riferiti dalle cronache negli ultimi giorni. Il primo è notissimo e riguarda Taranto, dove ha sede l'Ilva, l'acciaieria di proprietà del gruppo Riva. Come è noto, una  parte della famiglia di imprenditori lombardi è agli arresti, mentre l'altra è in fuga, inseguita da un mandato di cattura. Le accuse contro di loro sono terribili: i  pm li ritengono responsabili della morte di molte persone, uccise secondo i magistrati dalle esalazioni della grande fabbrica. Peccato che sul numero di decessi e ancor più sulle cause che li hanno provocati non ci si metta d'accordo. I periti del tribunale la pensano in un modo, quelli dell'azienda, ma anche gli esperti del ministero, in un altro. Intendiamoci: nessuno sostiene che dagli altiforni esca un'aria profumata di violetta, tuttavia  alcuni professori ritengono che Taranto non sia più inquinata di tante altre città e che non tutte le persone decedute siano vittime dell'acciaio. Ora, di fronte a interpretazioni diverse, un Paese normale cosa fa? Si ferma e controlla meglio:  se poi  è  necessario impone la messa a norma dell'azienda, badando però a evitare di chiuderla, soprattutto se la fabbrica dà lavoro a migliaia di persone e contribuisce a tenere in piedi l'economia di mezza regione. Da noi invece cosa accade? Che indipendentemente dagli impegni di risanare l'Ilva, i giudici ne pretendono la chiusura in attesa del risanamento, impedendo all'azienda di produrre. In pratica significa condannare a morte un'impresa, la quale se si ferma un anno o due non si riprende più, perché non fabbricando nulla non vende e dunque perde i clienti. Per impedire il blocco dello stabilimento e il sequestro della produzione alla fine c'è voluto un decreto del governo, ma non è detto che basti a evitare il peggio.  Il nostro naturalmente non è un elogio dell'inquinamento, ma semplicemente un invito al buon senso e a evitare gli eccessi . Altro caso in cui la ragione pare essersi un po' appannata è quello dei rigassificatori. Tempo fa su queste colonne abbiamo dato notizia di quello che la British Gas avrebbe voluto fare in Puglia, ma che l'opposizione dell'opinione pubblica ha  impedito, rinunciando a 800 milioni di investimento e a 500 posti di lavoro. La storia ora si ripete alle porte di Trieste: la sola idea che fuori città gli  spagnoli  di Gas Natural   vogliano fare un rigassificatore ha indotto un certo numero di abitanti a sfilare in piazza, denunciando rischi terribili. Risultato, se non interverrà qualche fatto nuovo c'è il rischio che anche in questo caso si volatilizzino 500 milioni e un certo numero di posti di lavoro.  Ora, mandar via le multinazionali e far chiudere le fabbriche sospette di inquinare di certo non ci espone a rischi e ci fa dormire sonni tranquilli. Basta però evitare di lamentarsi se poi la bolletta del gas costa di più e se il lavoro non c'è: preparandosi a un sereno futuro di povertà.  E di disoccupazione. @BelpietroTweet

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