Cerca
Cerca
+

Con Yara è morta la giustizia italiana

default_image

Archiviata la posizione dell'unico sospettato le indagini della 13enne sono tutte da rifare. Cancellati tre anni di esami del dna, intercettazioni e caccia ai mitomani. Ennesima prova che i pm sono efficienti solo quando c'è da mandare in cella Berlusconi

Nicoletta Orlandi Posti
  • a
  • a
  • a

In Italia la giustizia va veloce solo se c'è di mezzo Berlusconi, per  il resto è una lumaca. Anzi, spesso non è, nel senso che non solo va piano, mandando in prescrizione migliaia di reati e dunque dichiarando il proprio fallimento, ma spesso non arriva né a processo e neppure a identificare i responsabili dei crimini. L'ultimo caso di resa incondizionata è quello che riguarda Yara Gambirasio, la ragazzina bergamasca di 13 anni che un mese prima del Natale di tre anni fa scomparve nel nulla a settecento metri da casa. Era andata in palestra, dove si allenava come ginnasta, e aveva lasciato l'impianto sportivo un quarto d'ora prima delle 19. Per settimane la cercarono in tutta Brembate e anche nei paesi vicini, per trovarla, morta, abbandonata in un campo, mesi dopo, a pochi chilometri dal luogo del rapimento.  Dal giorno della sua scomparsa ad oggi molti articoli sono stati scritti su di lei, sulle indagini, sui sospettati. Ma ieri, dopo che la settimana scorsa un mitomane aveva lasciato intendere che forse si poteva identificare l'assassino, la giustizia ha registrato la sua sconfitta. Dal procedimento aperto dalla Procura di Bergamo per omicidio è infatti uscito il solo indagato, Mohamed Fikri, un giovane marocchino che aveva lavorato in un cantiere vicino al luogo del rapimento. Fikri era stato intercettato dopo la scomparsa della ragazzina e una sua frase aveva insospettito gli investigatori, i quali ne avevano disposto l'arresto. Le manette erano scattate in maniera spettacolare mentre il giovane era già imbarcato sulla nave che avrebbe dovuto riportarlo a casa e per questo il traghetto era stato costretto a rientrare in porto. Le parole del giovane, prima indagato per omicidio e poi per favoreggiamento, in realtà - a quanto è dato sapere - erano state interpretate male: tradotte in fretta avevano lasciato intendere che sapesse qualcosa della morte di Yara e invece si trattava di un equivoco. Così, dopo anni, anche lui, l'unico indagato per l'assassinio di una bambina, esce di scena e il delitto resta opera di ignoti.  Dal 26 novembre del 2010 la magistratura persegue fantasmi, inseguendo parole incomprensibili rimaste impigliate in una intercettazione e brandelli di dna che l'omicida avrebbe lasciato sul corpo della ragazzina. Sulle tracce dei reperti biologici un intero paese è stato sottoposto a prelievi, nella convinzione che la ricostruzione del materiale organico avrebbe portato a identificare il colpevole. Per farlo si è scandagliato il passato di decine se non centinaia di persone. Vite, amori, figli segreti. Tutto inutile, tutto senza esito.  Nelle maglie della giustizia, scagionato Mohamed Fikri, rimangono solo i mitomani, i pazzi che scrivono sul registro di una chiesa dell'hinterland milanese di essere gli assassini, salvo poi scoprire che si sono inventati tutto. I cronisti di nera abituati a usare parole ordinarie per raccontare eventi straordinari scriverebbero che la giustizia brancola nel buio, mentre i più generosi si limiterebbero a registrare che gli inquirenti non escludono nessuna pista, testimoniando in tal modo che non ne hanno nessuna. A distanza di tre anni, l'assassino di una ragazzina di 13 anni uscita di casa per andare in palestra e mai più tornata, non si sa chi sia. E tutto questo nella civile provincia bergamasca, in un paese di poche migliaia di abitanti dove,  come sempre scrivono i cronisti, tutti si conoscono e tutti sanno tutto di tutti. Se questo non è un fallimento c'è da chiedersi cosa debba ritenersi tale. A Bergamo hanno usato ogni cosa. Le intercettazioni (probabilmente a strascico, prova ne sia che hanno intercettato Fikri per la sola ragione che lavorava vicino al luogo del rapimento), le indagini genetiche (controllando il dna di centinaia, forse migliaia di persone), le telecamere (verificando i passaggi di migliaia di veicoli), ma non è servito a nulla.  Se ne deve concludere che nulla è stato intentato e che la giustizia è fallita ma non per colpa sua? No. È vero, si è battuta ogni strada, ma forse con troppa improvvisazione. Probabilmente con scarsa preparazione. Perché la giustizia italiana, quella dell'obbligatorietà - finta - dell'azione penale insegue ogni reato come se fosse uguale e considera i magistrati tutti allo stesso modo, come se avessero tutte le competenze del caso. Così i furti, le truffe e gli omicidi sono messi sullo stesso piano. Si indaga, in teoria, con la stessa passione, si profonde lo stesso impegno. Un pm di una cittadina trova sul suo tavolo i fascicoli sui reati finanziari, quelli per l'espulsione di un clandestino e la storia di una ragazza ammazzata. E secondo la giustizia deve coordinate le indagini su tutti i fronti.  Anche un fesso capirebbe che un sistema del genere non funziona. Anche uno che non fosse un fine giurista ma un semplice cittadino intuirebbe che certi reati dovrebbero avere la precedenza e le indagini dovrebbero essere affidate a chi ha più esperienza: chiunque, ma non chi si occupa di giustizia. Per i reati di mafia c'è la procura antimafia, ma per gli omicidi, per i delitti che colpiscono l'opinione pubblica e hanno per vittima una ragazzina invece non c'è alcuna procura speciale. Ci si occupa di Yara come di un semplice reato contro il patrimonio. Con le stessa perizia. Certo, nel caso di una ragazzina ammazzata, almeno lì, non c'è di mezzo Berlusconi. E dunque anche se sul fascicolo cala la polvere nessuno si scandalizza. Nessuno finisce sotto i riflettori. di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet

Dai blog