Cerca
Logo
Cerca
+

Carioti: "Napolitano ha ammesso che è un problema politico"

La vicenda di Berlusconi non ha nulla a che fare con la sfera giudiziaria: in ballo c'è la stabilità del Paese. Il Quirinale sta cercando una soluzione per salvarlo ed evitare scenari peggiori

Nicoletta Orlandi Posti
  • a
  • a
  • a

Il segnale che Silvio Berlusconi e il Paese attendevano da Giorgio Napolitano è arrivato ieri sera. Il capo dello Stato, pur senza sbilanciarsi con le elargizioni e le promesse, ha indicato al Cavaliere la strada per ottenere la grazia. Lo ha fatto dal punto di vista procedurale, spiegando ad esempio che sarà «essenziale» la presentazione di una richiesta esplicita, e dal punto di vista politico, avvertendo che non accetterà che venga messo in pericolo il governo Letta e che non tollererà «ipotesi arbitrarie e impraticabili di scioglimento delle Camere». Il presidente della Repubblica ha avvisato anche che «l'eventuale atto di clemenza individuale» riguarderà solo la pena principale, e non la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici. La cattiva notizia, insomma, è che la questione della «agibilità politica» chiesta da Berlusconi resta irrisolta e andrà giocata su altri tavoli. Mentre la buona notizia è che Napolitano ha riconosciuto che la condanna inflitta al leader del centrodestra rappresenta un enorme problema politico, al punto da prendere pubblicamente in considerazione l'ipotesi di concedergli la grazia.  Autocitarsi non è mai elegante, però in casi come questo può servire a rendere le cose più chiare ai lettori. L'11 luglio «Libero» titolava «Giorgio facci la grazia». «Le pressioni sulla Cassazione», si leggeva sulla nostra prima pagina, «sono fortissime: anche se la condanna non ha fondamento, c'è il rischio che venga confermata. A quel punto solo Napolitano può salvare la democrazia. Con un'iniziativa straordinaria ad personam». Nei giorni seguenti scrivemmo che il presidente della Repubblica, preoccupato per le sorti del governo, aveva prospettato una simile soluzione politica al premier, il quale si era detto sostanzialmente d'accordo (sarebbe stato molto strano il contrario). Fummo accusati da anonimi «ambienti del Quirinale» di «analfabetismo e sguaiatezza istituzionale». Si accodarono colleghi che poche settimane dopo sono stati costretti a fare retromarcia. Adesso possiamo dire che raccontando quello che bolliva in pentola forse saremo stati sguaiati (il compito di un giornale è dare le notizie, non obbedir tacendo), ma di sicuro non analfabeti: le cose sono andate come i lettori di «Libero», per primi, le avevano apprese. Il problema della condanna a Berlusconi è politico, non giuridico. La caccia all'uomo nei confronti del Cavaliere è stata mossa da ostilità politica. La stessa ostilità che avrebbe accolto i giudici della Cassazione se non avessero confermato nella sostanza il verdetto milanese. Gli ermellini della suprema Corte sono condizionati dall'ambiente in cui vivono, dai loro legami umani e professionali. In altre parole, sapevamo che la Cassazione non avrebbe mai avuto la forza di sconfessare i magistrati di Milano e rovesciare la sentenza di condanna inflitta a Berlusconi.  Se i magistrati della Cassazione erano inevitabilmente condizionati dai loro colleghi, Napolitano aveva invece il compito di pensare all'interesse del Paese. A un problema politico serviva una soluzione politica. L'ex premier, attuale leader del centrodestra e capo di quello che secondo tutti i sondaggi è oggi il primo partito italiano, non può essere rimosso dalla scena per via giudiziaria senza causare un terremoto, la cui prima vittima sarebbe il governo delle larghe intese voluto e protetto dal capo dello Stato. Così, pur calibrando le parole, Napolitano ha messo in fila concetti dei quali il centrodestra e il suo leader hanno qualche motivo per rallegrarsi.  Oltre a confermare che la concessione della grazia è un'ipotesi valida e concreta, ha difeso il diritto di critica nei confronti dell'operato dei magistrati da parte di Berlusconi e dei suoi, dicendo che «è legittimo che si manifestino riserve e dissensi rispetto alle conclusioni cui è giunta la Corte di Cassazione». Ha ufficialmente riconosciuto il ruolo imprescindibile del Cavaliere, «rimasto leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza». Ha avvisato i magistrati che le leggi parlano chiaro e che nessuna interpretazione potrà consentire loro di mettere il leader del Pdl dietro alle sbarre: «La normativa vigente esclude che Silvio Berlusconi debba espiare in carcere la pena detentiva irrogatagli e sancisce precise alternative». Ha ribadito che tra i «problemi di fondo dello Stato e della società» c'è la riforma della giustizia. Napolitano è convinto che dalle ceneri di questo esecutivo non possa nascere nulla di buono, ma solo il caos istituzionale e l'abbandono di ogni speranza di fare le riforme necessarie. Nonché - aggiungiamo noi - il probabile avvento di un governo formato dal Pd e dai grillini, dal quale il Paese può attendersi solo sciagure. Risparmiando a Berlusconi l'onta del silenzio e del carcere, e garantendo comunque – «agibilità politica» o meno – la presenza del Cavaliere sullo scenario, Napolitano spera quindi di rendere meno precarie le sorti del governo e di scongiurare scenari peggiori.  Certo, avremmo preferito una soluzione più chiara, che garantisse a Berlusconi la libertà di candidarsi e ai suoi elettori la libertà di votarlo. Ma Napolitano evidentemente aveva la preoccupazione di trovare un accomodamento che risultasse digeribile pure al Partito democratico e alla stessa magistratura. Quella scelta dal presidente della Repubblica non sarà la migliore delle strade possibili,  ma può essere un modo per evitare il precipizio. Per Berlusconi, per il centrodestra e soprattutto per il Paese. di Fausto Carioti

Dai blog