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Re Giorgio ci affibbia un premier col 4% dei voti

Napolitano si è arreso a uno che alle primarie Pd ha preso meno consensi di Monti alle Politiche. Un trucco fatto per evitare le urne

Giulio Bucchi
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Per una volta sono d'accordo con Beppe Grillo, il quale ieri, a proposito delle consultazioni del presidente della Repubblica per la formazione del nuovo governo, ha annunciato che il Movimento Cinque Stelle non salirà al Colle. Che senso ha infatti sottoporsi a un rito sapendo che, a prescindere da quanto si dirà e si chiederà, tutto è già deciso? Da tempo le consultazioni del Quirinale per trovare una soluzione alle crisi di governo sono inutili: lo sono state con Enrico Letta e ancor più quando venne nominato Mario Monti. Ma in queste ore sono addirittura una farsa. Incontrare Giorgio Napolitano ed esternargli preoccupazioni o rappresentare proposte è un esercizio che non serve a nulla, perché tutti sanno  che il prossimo presidente del Consiglio sarà Matteo Renzi. Piaccia o no al Movimento Cinque Stelle, a Forza Italia, alla Lega, al Nuovo Centro Destra, a Sel, a Scelta civica e perfino ai presidenti delle Camere o all'ex capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, il nuovo premier sarà il sindaco di Firenze e a nessuno sarà consentito di mettere becco nella nomina. Difficile anche che i gruppi che si candidano a far parte della maggioranza di governo possano influire sulla lista dei ministri, perché il segretario del Pd procede a passo di carica, decidendo da solo le portate e il menù del nuovo esecutivo, lasciando ai compagni di viaggio gli avanzi. Al partito di Monti un posto di seconda fila, a quello di Angelino Alfano uno appena un po' più visibile ma senza incarichi e un altro con qualche delega.  Certo, anche nel passato era il leader della coalizione a imporsi e a imporre le sue scelte, ma almeno era legittimato da milioni di voti. Qui invece niente. Non c'è legittimazione,  non ci sono gli italiani, c'è solo un tipo schiacciasassi che spiana con gli scarponi chiodati ogni regola.  Si dirà: ma la Costituzione prevede le consultazioni e nonostante si conosca già l'esito si deve rispettare il percorso previsto.  Sarà, ma ho la sensazione che le inutili riunioni al Quirinale siano rimaste ormai i soli paletti fermi  del tragitto istituzionale che conduce alla formazione del nuovo governo. Tutto il resto è stato stravolto, a cominciare dalla stessa crisi, che di solito dovrebbe avere un passaggio parlamentare e qui ne ha uno extraparlamentare. Per non dire della questione della legittimità popolare, cioè della sovranità degli italiani, ai quali la Costituzione assegna il diritto-dovere di eleggere un Parlamento e di conseguenza di darsi un governo.  Le primarie non sono un'elezione secondo regole fissate dalla legge, sono un fatto privato di un partito, il quale decide di fare una consultazione al proprio interno, fra simpatizzanti e iscritti, decidendo metodi e criteri che vanno bene ai propri organi dirigenti. Risultato: una volta votano solo alcuni, un'altra si estende a qualcun altro. In tutto, quando Renzi è stato eletto, si sono recati alle sezioni del Pd tre milioni di elettori e il sindaco è risultato vincitore con meno di due milioni di consensi. Si tratta di numeri non certificati, che nessuna commissione elettorale ha verificato, ma prendiamoli per buoni. Due milioni sono un milione di voti meno di quelli presi da Mario Monti all'ultima consultazione. Ciò nonostante, grazie a quei voti nella sfida per le primarie del Partito Democratico, Renzi oggi si candida alla guida del Paese, ritenendo di aver assolto almeno in parte alla necessità di avere una legittimazione popolare. In realtà il sindaco di Firenze  arriva a Palazzo Chigi forte del consenso di meno del 4 per cento degli italiani: tanto per fare un esempio è come se Nichi Vendola  o Matteo Salvini fossero catapultati alla guida del Paese. Recentemente la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la legge elettorale, giudicando eccessivo un premio di maggioranza del venti per cento. Ma Renzi, come quei raider che scalano le società usando le scatole cinesi e con il cinque per cento giungono ad avere la maggioranza, grazie al Porcellum che voleva cambiare e grazie a Napolitano che ne asseconda l'ambizione, governerà con un premio del 40 per cento, il doppio di quello che la Consulta ha bocciato. Una riflessione a questo punto è d'obbligo.  La responsabilità di quanto sta succedendo non è del sindaco di Firenze, il quale è un giovane arrembante che non si fa scrupolo di sgomitare pur di arrivare là dove si è prefisso. La colpa è del capo dello Stato, cioè di un anziano burocrate di partito che non si rassegna a perdere il potere e non si pente dei disastri che le sue decisioni hanno provocato.  Nel 2011 il presidente della Repubblica ci ha imposto Monti, nel 2013 ci ha regalato Letta, oggi  ci mette nelle mani di Renzi. L'altro giorno, interpellato mentre era  in Portogallo, a chi gli chiedeva  se la caduta di Letta potesse condurre a una scioglimento delle camere e a nuove elezioni, Napolitano ha risposto: «Non diciamo sciocchezze».  Già, perché con tutto quel che succede, con la Costituzione e le regole messe sotto i piedi, la sola idea di restituire la parola agli italiani è una bestemmia.  Piuttosto che rischiare il voto, meglio rischiare l'osso del collo con Renzi.  di Maurizio Belpietro  [email protected] Twitter: @BelpietroTweet            

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