Morte di Regeni e strage a Bruxelles. Belpietro: il "dettaglio" in comune...
Sono trascorsi cinque anni dalle Primavere arabe, che poi in realtà più che in primavera scoppiarono in inverno, perché la rivoluzione dei gelsomini cominciò in Tunisia poco prima del Natale del 2010. Ma a prescindere se si dovessero chiamare Primavere o Inverni, una cosa è certa: sono state un fallimento. Per rendersene conto è sufficiente riflettere non dico su quanto accaduto in questi giorni a Bruxelles, ma su ciò che sta avvenendo al Cairo. Da settimane, ossia da quando si è scoperto il cadavere di Giulio Regeni, l'Italia chiede all'Egitto di conoscere la verità sulla tragica fine del ricercatore italiano. Invece di risposte chiare e definitive, ad oggi il nostro Paese ha ricevuto una sequela impressionante di balle prefabbricate. Appena scoperto il cadavere dello studente la polizia si affrettò a sostenere che il giovane fosse vittima di un incidente stradale. Tesi subito smentita dai fatti e dunque rimangiata dopo pochi giorni. In seguito, dal Cairo sono arrivate altre ricostruzioni sballate. Giulio vittima degli ambienti che frequentava, poi forse dei suoi stessi amici inglesi. Quindi, recentemente, ecco spuntare la tesi dell'omicidio per rapina: il giovane sarebbe caduto nel tranello di una banda locale, che non contenta del bottino lo avrebbe torturato per giorni. Per rendere più convincente il racconto, le autorità locali avrebbero fatto ritrovare anche i documenti di Regeni e, tanto per confondere un po' le idee, anche un certo quantitativo di droga, così che al caso rimanesse appiccicata anche una dose di responsabilità personale per i comportamenti tenuti nella vita privata. A risolvere il caso non è servita neppure la presenza sul campo degli investigatori italiani. Anzi, il viaggio del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, sbarcato al Cairo con aereo del governo, semmai è stato usato dagli egiziani per camuffare ancora di più la verità, nascondendo i risultati delle indagini dietro la collaborazione con la nostra magistratura. Se l'uccisione di Giulio Regeni fosse avvenuta in Libia, come ad esempio è accaduto a Salvatore Failla e Fausto Piano, o in Siria, ossia in Paesi sconvolti dalla guerra e in mano ad eserciti contrapposti, dove lo Stato, inteso come autorità centrale, non esiste più, probabilmente non ci saremmo stupiti delle troppe versioni fornite dalle autorità e avremmo giudicato la vicenda come una delle tante accadute in luoghi senza regole e senza giustizia. Ma l'assassinio del ricercatore italiano è stato compiuto in Egitto, ossia in un Paese considerato amico, con cui facciamo affari e con cui abbiamo molti interessi, a cominciare da quelli turistici. Come è possibile dunque che al Cairo, dove regna un generale che si dice vicino all'Occidente, non sia possibile scoprire chi ha ucciso uno studente italiano? Soprattutto, come è possibile che un Paese amico si faccia beffe in questo modo dell'opinione pubblica italiana? La domanda non è di secondaria importanza, soprattutto considerando come l'opinione pubblica italiana abbia accolto la Primavera egiziana. Quando Hosni Mubarak fu cacciato a furor di folla, i giornali e le piazze italiane esultarono, perché finalmente il vecchio Faraone lasciava posto alla nuova democrazia. La cacciata del dittatore venne vista come un passo avanti sulla strada della occidentalizzazione dell'Egitto. A cinque anni di distanza non solo veniamo a sapere che così non è, perché il regime instaurato all'ombra delle piramidi è quanto di più lontano dalle democrazie europee ci sia, ma addirittura scopriamo che le nostre relazioni valgono meno di zero. Con il Cairo abbiamo recentemente sottoscritto contratti petroliferi con molti zeri, tanto che la nostra principale azienda del settore, una specie di Stato nello Stato, può essere considerata uno dei principali partner economici dell'Egitto. Ma ciò nonostante anche questa intesa non è stata giudicata sufficiente per ottenere la verità su Regeni. Passi che l'Italia non riesca ad ottenere ragione in India, dove da anni due servitori dello Stato sono trattenuti in attesa di ingiustizia. Passi perfino che i corpi di due rapiti rimangano per giorni in ostaggio delle cosiddette autorità libiche. Ma che l'Egitto non ci dica la verità su uno studente barbaramente assassinato quando con noi fa affari d'oro, no, è troppo difficile da mandare giù. Morsi, il presidente eletto subito dopo Mubarak, era il leader dei Fratelli musulmani e dunque per noi impossibile da digerire. Ma se l'uomo nuovo è un tipo come Abd al Fattah al Sisi, ossia uno che promette giustizia sul caso Regeni ma poi ci porta a spasso per mesi tenendoci per il naso, allora era meglio tenersi il Faraone. Mubarak non sarà stato uno stinco di santo con il suo popolo, ma almeno nei confronti del nostro Paese aveva rispetto e i nostri studenti non sparivano da un giorno all'altro per poi essere ritrovati morti ai bordi della strada. L'Egitto prima della Primavera araba era insomma uno Stato poco democratico, esattamente come ora, ma almeno aveva delle regole. Ora il Cairo sembra un posto in mano ad apparati oscuri, dove nessuno può dirsi al sicuro, men che meno dei giovani come Giulio Regeni. Se questo è il risultato delle manifestazioni di piazza Tahrir, davvero c'è di che complimentarsi con opinionisti e politici progressisti che le hanno sostenute. Se cinque anni di appoggio al grande cambiamento hanno prodotto questo caos, in Egitto e non solo, allora era meglio tenerci i vecchi dittatori. Più che del sonno dell'Occidente descritto da molti commentatori, qui siamo testimoni della stupidità dell'Occidente, che sempre più spesso si fa male da solo. Il Belgio e Giulio Regeni sono uniti da una sottile linea rossa. Una linea scritta con il sangue dei nostri errori. di Maurizio Belpietro