Lui è un condannato a morte. Di destra, orrore nel corpo: come lo hanno fatto morire
Perché proprio lui? Perché un bianco, e per di più, come si dice oggi, suprematista? Condannato a morte e giustiziato con un nuovo farmaco mai usato prima. «Trattato come una cavia da laboratorio», come ha denunciato uno degli stessi giudici, l' unico contrario alle decisione presa dalla Corte Suprema di cui fa parte. Che esista anche la pena di morte politicamente corretta? Naturalmente tutto sarà accaduto secondo procedure inesorabili e senza pregiudizi razziali. In America sono gente seria, pare. E in Florida la Corte suprema è al di sopra di ogni sospetto. O no? Qualche dubbio ce l' abbiamo. Semplicemente per un minuto facciamo nostra la tesi accettata e riverita secondo cui se sei nero, anzi afroamericano, in Usa hai molte più possibilità di essere fritto (si diceva così, al tempo della sedia elettrica) in presenza del medesimo orribile delitto che se fossi «caucasico», cioè bianco. Partiamo da una constatazione. Negli Usa sono pochissimi i contrari alla pena di morte. Nessun presidente sarebbe eletto se inserisse nel suo programma l' abrogazione del patibolo, che oggi si identifica in una barella mentre il medico aziona delle siringhe: ghigliottina chimica. L' idea ipocrita è di far soffrire il meno possibile. Ma è pur meglio di una tortura senza fine. Prima la sedia elettrica e poi l' uso di un gas letale, sono finite da tempo nella soffitta degli orrori del passato. Per fortuna. In Florida da diciotto mesi lo Stato e i suoi giudici non consegnavano più nessuno al becchino. Ed ecco che la ripresa di attività del boia, dopo la lunga sospensione per ragioni umanitarie dovute al cattivo funzionamento di certi veleni che moltiplicavano le convulsioni del condannato, è coincisa con l' inversione della statistica: a essere scelto è stato un criminale reo confesso, Mark Asay, 53 anni. Nel 1987, trent' anni fa, da membro di una squadra di razzisti aveva eliminato un nero e un ispanico. A noi la pena di morte ripugna sempre e comunque. Un delitto come quello di cui si è macchiato Asay è così efferato che quasi quasi ci indurrebbero a un ripensamento, se mai dovessimo rinunciare ai nostri principi. Di certo lasciar passare trent' anni, tra l' altro nei reparti dei destinati all' esecuzione, rende un uomo diverso: anima e cervello sono stati strizzati abbastanza. Ma non è questo il punto. E facciamo un' osservazione banale. Non c' è stato nessun battage preventivo da parte dei media per sensibilizzare sul caso. In altre vicende, il colore della pelle e la giovinezza dell' assassino, oppure il dubbio, hanno suscitato proteste, frenate, assai raramente la grazia del governatore, ma il trambusto era garantito, sacrosanto secondo il nostro punto di vista, essendo la causa giusta in sé . Stavolta soprattutto margini per dimostrare l' aspetto particolarmente persecutorio e crudele c' erano ad abudantiam. Il farmaco sostitutivo dopo che il predecessore si era dimostrato un' anticipazione dell' inferno (farmaco in greco peraltro vuol dire anche veleno), non era ancora stato usato, non era certificato il suo funzionamento mortale e insieme dolce. La dolce pena di morte - a questo siamo giunti - non era affatto certo sarebbe stata tale. Un giudice della Corte suprema ha dichiarato orripilato: «Usiamo quest' uomo come una cavia». Eppure non si è alzato alcuno sdegno preventivo. Personalmente non ho avuto tempo, come in un paio d' altri casi ho fatto anch' io, di inviare telegrammi o mail per indurre a un atto di clemenza l' autorità politica. Io lo so il perché di questa dimenticanza: Mark Asay non era semplicemente un pluriassassino, soprattutto era un suprematista. Dunque indigeribile anche per i più misericordiosi. La cavia è stata liquidata tranquillamente. Ci ha messo undici minuti a morire. Pare che Asay se ne sia andato senza troppi contorcimenti. A me comunque si contorcono lo stesso le budella. Resto convinto che i diritti umani valgano anzitutto per i peggiori assassini. Ma in questo caso qualcuno ha chiuso gli occhi e si è tappato la bocca, è il razzismo politicamente corretto. di Renato Farina