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Kennedy? Così il suo assassinio oscurò l'autore delle Cronache di Narnia

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Quando John F. Kennedy fu assassinato, il 22 novembre 1963, lo scempio della Seconda guerra mondiale aveva appena 18 anni e la rivoluzione bolscevica 46 come lui. Sulle auto esageratamente lunghe di papà, che venivano diritte dagli anni Cinquanta, i giovani americani scoprivano il modello borghese e subito lo rovesciavano nella controcultura psichedelica.

La pillola anticoncezionale, commercializzata nel 1960 e in Europa l’anno dopo, aveva già lanciato la rivoluzione sessuale e, mentre la tivù diventava idolo e l’industria mai era stata più forte, il boom economico s’infilò i collant e quella minigonna che Mary Quant aveva ideato in Inghilterra proprio nel 1963. Ebbene, quel 22 novembre lo sparo che ammazzò Kennedy non fermò affatto l’American Way of Life, ma ebbe il potere di silenziare un’altra scomparsa eccellente: nelle stesse ore moriva infatti anche Clive Staples Lewis. L’autore delle Cronache di Narnia, de Le lettere di Berlicche e de Le due vie del pellegrino avrebbe compiuto 65 anni sette giorni dopo.

In pochi anni aveva pubblicato una montagna di titoli, spaziando dal romanzo allegorico alla teologia dalla letteratura medioevale e rinascimentale alla filosofia della scienza. Sì, le vite di JKF e di CS Lewis non si sono mai incontrate ma corrono parallele, come quelle degli uomini illustri che un tempo venivano messi a confronto per cavarne ammaestramenti morali.

LO SBARCO
Ancora oggi il nome di Kennedy fa rima con pace e avvenire persino fra le stelle. Fu JFK che promise, culturalmente e politicamente prima ancora che preparare tecnicamente, lo sbarco del primo uomo sulla Luna, avvenuto poi il 20 luglio 1969, passo piccolo per gli astronauti ma enorme per il mito progressista. Eppure Kennedy non era di buona famiglia. Suo padre, Joseph P. Kennedy di Boston capostipite di una dinastia che è tutta un programma, ammirava Adolph Hitler e nutriva sentimenti antisemiti. Si dice che abbia iniziato a fare i soldi con il contrabbando di alcol durante il Proibizionismo, certi studiosi dicono che è solo una bufala, ma il sospetto stenta a morire; e che il clan Kennedy abbia incrociato le proprie strade con quelle del crimine organizzato, probabilmente fino all’epilogo mortale, di John certo, ma pure del fratello Robert, ministro della Giustizia, nel 1968, non è un mistero. Come che sia, papà Joe fece lobotomizzare la figlia Rosemary a 23 anni nel 1941 per curarne eccessi ed esuberanze, riducendola a un vegetale. Poi c’è l’ultimo dei quattro fratelli, Edward, detto «Ted», a dir poco imbarazzante.

Ma non tutti i conti tornano. In un libro del 2013, provocatoriamente intitolato JFK, Conservative, l’opinionista Ira Stoll ravvisa in Kennedy addirittura delle anticipazioni del reaganismo: riduzioni fiscali, spesa domestica calmierata, politica improntata alla crescita economica, fiducia nella libertà di scambio commerciale, l’idea di un dollaro forte, riarmo e difesa della libertà globale vissuta come una missione in politica estera. E poi era un grande anticomunista. Certo, la tesi è tutt’altro che pacifica, e nella lotta al comunismo JFK di errori madornali ne fece diversi, dal fallimento della Baia dei porci nel 1961 all’assassinio sciagurato del presidente vietnamita Ngo Dinh Diem 20 giorni prima di cadere a Dallas. Ma sicuramente davanti al Partito Democratico statunitense di oggi, quello con cui tutto il suo clan si identifica da sempre, sembra un reazionario. Reazionario cosciente era invece C.S.

Lewis. Amava definirsi un dinosauro, l’ultimo sopravvissuto di un tempo che fu dentro un mondo di modernismi assurdi e svilenti. Trovava più saggezza in un codice miniato che negli sperimentalismi contemporanei, e per questo si accompagnò a J.R.R. Tolkien, Charles Williams e Owen Barfield in quel circolo di amici e talenti letterari che prese il nome di Inklings e che fu attraversato da personaggi quali il poeta Roy Campbell e, forse, T.S. Eliot. Ma era tutt’altro che uno spostato fuori tempo massimo, come tali non erano nemmeno i suoi compagni di bevute e umane lettere. Perché una cosa moderna anche milioni di anni fa, anzi senza tempo, Lewis sapeva fare benissimo: sapeva sorridere, persino ridere. Rideva bene, perché rideva per primo, lasciando ai gufi l’ultimo riso sardonico. Aveva imparato a ridere avendo patito e subito, lottato e perduto di fronte alla sofferenza, come testimonia in Diario di un dolore, allorché morì, nel 1960, l’amata e poi sposata Joy Davidman, scrittrice, americana, atea, comunista e poi convertita al cristianesimo, stroncata dal cancro. 

Un male acuminato, quello di Lewis, che ebbe il potere persino di farne vacillare la tetragona fede religiosa. Faticò, Lewis, ma si rialzò, e seppe allora ridere anche dentro, consumato da quella gioia assieme terrena e soprattutto divina che lo aveva rapito quando, grazie a Tolkien e al loro amico Hugo Dyson, si fece cristiano a Oxford nel 1931. Racconta tutto nell’autobiografia Sorpreso dalla gioia. Rideva di gusto, il serissimo C.S. Lewis, che fu un anglicano più cattolico di tanti cattolici, laddove il cattolico Kennedy assicurava al mondo che la sua fede non avrebbe influenzato la sua politica e lasciava che la sua politica influenzasse la sua fede («personalmente sono contrario, ma gli altri facciano pure»). Sessant’anni dopo, questi due grandi, uniti da una morte sincrona e divisi da un abisso in vita, emblematizzano il secolo XX come pochi altri. Tutte le sue ombre e tutte le sue luci.

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