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L'Onu dimentica i 200mila profughi ebrei

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Antonio Castro
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C’è un altro esodo. Dimenticato però dall’Onu. Dal 7 ottobre scorso la bellezza di 200mila israeliani sono stati costretti a lasciare case, posti di lavoro, kibbutz e moshav. La villetta o l’appartamento. A Nord come a Sud. Nel giro di qualche ora, al massimo qualche giorno, hanno dovuto lasciare le proprie case. Una cosa è fare i conti con gli allarmi periodici confidando sull’ombrello rassicurante (?) dell’Iron Dome, il sistema elettronico israeliano che solitamente consente di intercetttare e abbattere i razzi.

Tutt’altro è ricevere dal proprio governo l’ordine di evacuare anziani e bambini. Si butta qualcosa in valigia e si parte. Per dove capita, per dove si può. Sotto il tiro incrociato di Hamas dalla striscia di Gaza, di Hezbollah dal confine libanese si stima che centinaia di migliaia di famiglie, anziani, bambini, insomma tutti quelli non richiamati alle armi e che vivono (vivevano) in prossimità delle “aree calde del Paese” sono stati dislocati verso zone ritenute più sicure. Secondo i dati diffusi dal capo della Autorità nazionale di emergenza, Naea, il generale di brigata Yoram Laredo, le strutture turistiche di Eilat nel tempo di poche ore sono state trasformate da resort per prendere il sole bordo piscina in un enorme campo profughi. Certo la vista su questo spicchio di Mar Rosso incuneato tra Egitto e Giordania non sciacqua via l’incubo dell’assalto, delle stragi, dei colpi di kalashnikov e machete. Però le imponenti operazioni militari (è stata creata una “zona cuscinetto intorno a Gaza di oltre 5 chilometri), hanno suggerito di mettere al sicuro quanti più abitanti possibili.

 

 

 

E due mesi fa c’era poco di stare a discutere. Primum vivere... Poi si vedrà. Dal confine settentrionale si è assistito- riaperti i voli- ad un autogestito deflusso verso Cipro. Oasi di relax a meno di 40 minuti di volo da Israele è stata insolitamente invasa in questo periodo di bassa stagione da «ben 16mila israeliani», ha racconta al Guardian Arie Zeev Raskin, il rabbino capo dell’isola. «Più di 16.000 persone sono sbarcate a Cipro in cerca quanto meno di silenzio dopo quel terribile giorno».

 

 

 

Con oltre 300mila riservisti mobilitati c’è chi non ha perso tempo, ha indossato la divisa, preso l’arma d’ordinanza e spedito mogli e figli sull’isola. «Ci sono madri single, bambini traumatizzati, persone che non riescono più a tollerare il rumore dei razzi che esplodono ogni giorno. Offriamo loro tutto ciò che possiamo, che sia un letto, cibo, alloggio temporaneo», spiega il rabbino capo dell’isola Arie Zeev Raskin. E poici sono quanti si sono rifugiati da parenti e amici. Ad Haifa, verso Gerusalemme, addirittura all’estero. Magari facendo avanti e indietro in settimana per rassicurare parenti e amici. I genitori anziani che vivono a Roma, Parigi, Amsterdam, Berlino. Anche per riprendere fiato dopo un attacco terroristico. Inatteso quanto annunciato. Giusto l’altro ieri Amos Harel, firma del quotidiano progressista Haaretz ha ricostruito e pubblicato i reiterati segnali di allerta che erano stati inviati da oltre un anno all’Aman (Ifd), allo Shin Bet (servizi interni), al Mossad (specializzato nelle operazioni all’estero). Campanelli evidentemente sottovalutati, ritenuti «un inutile allarmismo».

 

 

 

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