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Svezia rovinata dagli arabi, ma ha paura di ammetterlo

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Andrea Morigi
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Pacifica, ricca, fredda, popolata dai discendenti dei vichinghi. Tutti i luoghi comuni sulla Svezia si sono ribaltati negli ultimi decenni. E non solo per effetto del cambiamento climatico. Anzi, le conseguenze delle scelte politiche e ideologiche si vedono tutte, distintamente. Qualcuno, come il governatore della Banca Reale di Stoccolma, Erik Thedéen, è addirittura in grado di prevedere l’esito di cause antropiche come l’incidenza della crimnalità sulla fiducia dei consumatori e delle imprese, misurabili attraverso appositi indici. Lo ha detto, benché non tanto chiaramente, al Financial Times parlando delle gang criminali che stanno mettendo a repentaglio l’ordine pubblico del Paese scandinavo: «È una potenziale minaccia a lungo termine alla crescita potenziale della Svezia. Ed è una ragione importante per cui dovremmo affrontarla e fermarla. Se soltanto si guarda a dove non c’è fiducia, non sono i tipici Paesi con abbondante crescita economica». È che mancando la speranza nel futuro, le attività economiche sarebbero obbligate ad affrontare costi più alti per la sicurezza e ad affidarsi a «legali che esaminano a fondo ogni transazione, invece che a una stretta di mano».


CENSURA PREVENTIVA
Un sintomo di patologia sociale, rilevato da un osservatore decisamente privilegiato, che ha a disposizione cifre e dati di prima mano, ed è in grado di confrontarli con le regole di una sana fisiologia, che comportava alti livelli di fiducia, equivalenti a «moltiplicatori» della vita economica e corrispondenti a «una risorsa importante quando si tratta di produttività e crescita economica», ricorda Thedéen, che si astiene però da ogni riferimento alla nazionalità o all’appartenenza etnica dei componenti delle bande. Il rischio di passare da razzista è sempre dietro l’angolo in uno degli Stati dove la socialdemocrazia ha governato per così tanto tempo da aver imposto la censura preventiva sui media e nel dibattito pubblico contro chi non rispettale regole del dogma politicamente corretto del multiculturalismo. Ecco perché solo in pochissimi casi dalle istituzioni esce uno spiraglio di proposta sensata. E, spesso, troppo tardi.

 

 


Solo ora una ricercatrice del Consiglio Nazionale Svedese per la Prevenzione del Crimine, Klara Hradilova-Selin, fa rilevare alla Bbc che il contrasto alla criminalità organizzata «avrebbe dovuto essere un tema importante molto prima», benché «alcuni miei colleghi avessero avvertito da decenni della dinamica di marginalizzazione in corso nelle aree svantaggiate». Si sapeva già dalle indagini condotte da organi di stampa come Dagens Nyheter che il 90% degli indagati per porto abusivo di armi da fuoco fra il 2013 e il 2017 avevano uno o due genitori stranieri. Nel 2017 il quotidiano Expressen si era invece soffermato su 192 individui della capitale, membri di gang criminali o legati a reti di malavitosi: l’82% erano nati all’estero o con due genitori stranieri, mentre considerando quelli con almeno un genitore immigrato si saliva al 95%. L’anno successivo, il quotidiano Aftonbladet rivelava che su 122 indagati per stupro di gruppo negli ultimi sei anni i nati all’estero erano il 73%. Aggiungendovi quelli nati in Svezia da due genitori stranieri, si arrivava all’88%. Poi dicono che non bisogna generalizzare, ma il fenomeno è constatabile. Per ritornare alla realtà occorre presentare statistiche, sondaggi, cifre indiscutibili, come ha fatto la Camera di Commercio di Stoccolma, che recentemente, come riferisce la Bbc, ha rilevato che otto responsabili delle imprese locali su dieci considerano ormai più difficile attirare talenti, investimenti e visitatori stranieri a causa del tasso di violenza. Non è che vorrebbero chiudere le frontiere, insomma. Semmai preferirebbero la qualità alla quantità.

Del resto va così in tutto il mondo, con il pil delle aree a più alto tasso mafioso, anche se coincide con un’economia sommersa, fermo a livello di povertà. Nel caso della Svezia, inoltre, entrano in gioco i costi del Welfare State, sostenuti da una fiscalità oppressiva per chi lavora e agisce secondo le regole civili, allo scopo di sopperire alle necessità dei più poveri. Peccato che i primi siano per la maggior parte gli svedesi storici, mentre i secondi, che vivono per lo più di assistenza pubblica, coincidano con la comunità degli immigrati. Fra i quali alcuni hanno sviluppato, invece di un sentimento di gratitudine per l’accoglienza della società ospitante, l’odio.
 

I GHETTI MULTICULTURALI
La prospettiva di una guerra civile non è un’ipotesi del tutto fantapolitica, visto che per entrare liberamente nelle “no go zone”, i quartieri ghetto di Malmö, di Stoccolma odi Uppsala, e riprenderne il controllo, il governo ha pensato di affiancare l’esercito alle forze di polizia prima che si ripetano eventi come l’assalto a Crépol, il paesino francese a sud di Grénoble dove alla fine di novembre il sedicenne Thomas è stato mortalmente accoltellato al torace da una banda di francesi di origine maghrebina determinati a far fuori «i bianchi». Per ora le vittime della guerra fra bande rivali che si sta svolgendo in Svezia, sono per la maggior parte narcotrafficanti, contrabbandieri, spacciatori i cui leader sono originari della Serbia o della Turchia. Nel 2023 ne sono morti 50 nel corso di sparatorie e le esplosioni sono state più di 140. Ma quando le case dei gangster saltano in aria con il tritolo, la deflagrazione scuote anche tutto il resto del tranquillo e normalmente silente paesaggio scandinavo e la sentono tutti. E comunque ormai ci vanno di mezzo anche i semplici passanti. In settembre, un settantenne e un ventenne hanno perso la vita per essersi trovati al posto sbagliato nel momento sbagliato, sulla linea di tiro di uno scontro a fuoco avvenuto in un pub di Sandviken, nella Svezia centrale. Pochi giorni più tardi, un’insegnante di 24 anni è morta per lo scoppio di una bomba all’esterno dell’università di Uppsala. Segno che il lato oscuro della mancata integrazione ormai sta prevalendo.

 

 

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