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Ilaria Salis, non solo Ungheria: la chain gang esiste ancora

Marco Petrelli
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“That's the sound of the men/ Working on the chain gang/ That's the sound of the men/ Working on the chain gang” una delle più belle canzoni R&B, firmata Sam Cooke, è dedicata alla chain gang, pratica che negli Anni Sessanta era “normale” nelle carceri Usa. E che, a distanza di oltre mezzo secolo, sopravvive in alcuni penitenziari.

Se vedere Ilaria Salis in catene ci ha gettati nello sconforto, ciò che accade a migliaia di chilometri di distanza, negli Stati Uniti di Joe Biden, è disarmante. In alcuni penitenziari americani è infatti tornata in auge la pratica di incatenare le caviglie dei detenuti.

Scene che conosciamo, principalmente grazie al cinema e a quei cartoni animati prodotti negli Anni 30, 40 e 50 del Novecento dove il detenuto è rappresentato in maglia e pantaloni a righe con una palla di ferro che gli trattiene il piede.

La chain gang fu introdotta negli USA l’indomani della guerra civile. La schiavitù degli africani era stata abolita nel 1863, in pieno conflitto, ma sostituire la manodopera servile non era cosa facile. Specie per lavori duri, come la manutenzione delle strade o per scavare nei cantieri. Ecco allora l’agghiacciante idea: catene e lavoro forzato per la popolazione carceraria, bianca e nera. Nera, soprattutto, perché neo di una grande democrazia quale gli Stati Uniti è proprio la disparità di trattamento di alcune minoranze, in particolare gli afro-americani.

Ai tempi di Sam Cooke non era così difficile vedere un detenuto incatenato lavorare sotto il sole, con un guardiano armato a due passi da lui. Oltre ad essere inumano, quel trattamento era profondamente umiliante: pensatevi in una città, con la gente che passa e che si ferma a guardare voi incatenati ad una fila di altri poveri disgraziati impegnati a rimettere a posto chessò, un marciapiede. Asfalto bollente, caldo, catene. Orrore!

Eppure nel sud degli Stati Uniti la chain gang non è stata mai abbandonata. Anzi, c’è chi ha avuto il coraggio di reintrodurla dopo averla abolita: la Florida, ad esempio, che dal 2013 ha visto tornare l’incatenamento dei detenuti nella prigione di Bevard County, contea celebre in tutto il mondo per la base di Cape Canaveral. L’idea sarebbe stata dello sceriffo.

Tradizioni tutte del sud, talvolta governato dai quei governatori democratici che, fino agli Anni Sessanta, sostenevano la segregazione razziale. Nel suo discorso di insediamento a governatore dell’Alabama, di fronte alla statua del presidente confederato (democratico) Jefferson Devis, il democratico Herny Wallace pronunciò queste parole:

“In nome del più grande popolo che abbia mai calpestato questa terra, traccio una linea nella polvere e lancio il guanto di sfida davanti ai piedi della tirannia e dico segregazione ora, segregazione domani, segregazione per sempre”. Era il gennaio del 1963. A novembre avrebbe dichiarato l’intenzione di candidarsi alle primarie democratiche contro JFK, assassinato pochi giorni dopo a Dallas. 

L’Alabama ha reintrodotto la chain gang a metà Anni ‘90, per poi abolirla poco dopo. Invece, per eliminare quegli articoli della costituzione del 1901 che autorizzavano la segregazione razziale, bisognerà attendere il 2022. La segregazione non era più applicata, vero, ma l’essere ancora citata nello statuto dell’Alabama era un pugno nell’occhio dei diritti civili.

La chain gang sopravvive anche in Australia, forse in ossequio alle origini stesse della nazione oceanica, a lungo colonia penale dell’impero britannico. Australia, Stati Uniti: paesi che sentiamo molto vicini, certamente più prossimi dell’Ungheria di Orban che è nell’occhio del ciclone per la detenzione di Ilaria Salis.

Al di là dello sdegno per la ributtante scena dell’incatenamento in aula, noi Italiani dovremmo iniziare a capire che non tutti i popoli hanno l’inclinazione a interpretare le leggi in base a ciò che sembra giusto alla politica o al singolo cittadino. Noi siamo abituati a far prevalere l’emotività sul diritto, gli altri applicano più alla lettera e più cinicamente gli articoli del loro codice penale. A noi l’idea di un neo-nazista picchiato per strada può apparire quasi eroica, per Budapest è l’aggressione di un cittadino (straniero) a un cittadino ungherese. Per quanto, a onor di cronaca, Ilaria Salis respinga le accuse del suo coinvolgimento nella presunta aggressione, coinvolgimento del quale inoltre non vi sia l'assoluta certezza anche in termini di prove. 

Nazioni quali Ungheria, Polonia, Lettonia, Romania (dov’è rinchiuso il connazionale Filippo Mosca) hanno un approccio sociale e giuridico influenzato da anni e anni di regime comunista, unitamente a un nazionalismo che impedisce loro di comprendere o di accettare quei regolamenti comunitari che, quali membri UE, dovrebbero rispettare.

Indignarsi e chiedere il ritorno in patria di Salis e di Mosca è più che legittimo, purché si abbandoni la polemica politica e si impari – e in fretta anche – a capire come porsi con popoli che abbiamo voluto a tutti i costi far entrare in Europa e nella NATO, senza forse avere un’idea chiara delle loro identità, storia, approccio al rispetto dell’individuo e della sua dignità.

Le leggi (di cui non si parla mai) emesse in Lettonia a scapito dell’identità e della cultura della minoranza russa sono un esempio di come l’interesse nazionale, in Europa orientale, prevalga quasi completamente su quello comunitario.

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