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Israele, quattro stereotipi e un motivo per levare l'ultima roccaforte ad Hamas

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Daniele Capezzone
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Credo di sapere quanto sia popolare, in giornate come queste, limitarsi a generiche quanto emozionate perorazioni «per la pace in Medio Oriente». Si scaldano i cuori e contemporaneamente si scaricano le coscienze, autoassegnandosi una certificazione di bontà, di umanità, di empatia. Figurarsi: chi mai può essere «per la guerra»? Solo dei mostri, si capisce. Non solo: abbiamo a che fare – ultracomprensibilmente – con un’opinione pubblica angosciata dalla duplicazione dello scenario bellico (Ucraina e Gaza) e via via più consapevole di come, in giro per il mondo, altri teatri minaccino di farsi a loro volta roventi: si pensi solo alla situazione in almeno una mezza dozzina di stati africani. È logico che tutto questo spaventi le persone: ed è inevitabile che i politici guardino i sondaggi e adeguino il loro racconto ai sentimenti già sedimentati presso una parte assai consistente dell’elettorato.

Ma, a maggior ragione in un quadro del genere, onestà intellettuale impone di non essere reticenti né omissivi, e di raccontare tutta intera una scomoda verità. Lo ha fatto l’altro ieri Mario Sechi, ricordando come una serie di guerre chiuse male abbiano prodotto una scia di successivi conflitti: quando una ferita resta aperta, può solo diventare purulenta, altro che guarigione. E lo hanno fatto ieri Marco Patricelli, rievocando l’illusione dell’appeasement (Monaco 1938 e non solo) e Fabrizio Cicchitto, tratteggiando il disegno comune antioccidentale che vede non di rado convergere Pechino-Teheran-Mosca.

 

 

 

TUTTI CONTRO

Dentro questa cornice, è l’ora di esprimere qualche valutazione forse impopolare ma necessaria sulla prossima offensiva israeliana a Rafah. Un po’ tutti (Onu, Ue, Casa Bianca bideniana, e ora anche il Parlamento italiano, sia pure attraverso l’escamotage di una mozione della minoranza che è stata lasciata passare dalla maggioranza) si dichiarano contrari all’azione di Gerusalemme. Ma questo ragionamento presenta non pochi punti deboli. Primo. I contrari usano l’argomento - forte e di grande impatto emotivo della popolazione civile palestinese che verrebbe indubbiamente messa a rischio. Vero, anzi verissimo. E allora occorre, prendendo i giorni necessari (del resto, non risulta che l’attacco israeliano debba avvenire ad horas), organizzare corridoi e vie di fuga per i civili, ipotesi caldeggiata in primo luogo da Gerusalemme. Tra Rafah (profondo Sud della Striscia di Gaza) e Khan Younis c’è ad esempio una notevole quantità di spazio disponibile. Dunque, sarebbe compito delle Nazioni Unite e delle loro agenzie (in particolare, la famigerata agenzia per i rifugiati palestinesi) adoperarsi immediatamente in tal senso: lo facciano, garantendo il “come”, anziché limitarsi a dire no all’operazione annunciata dall’esercito israeliano. In altre parole, l’argomento dei profughi (che si deve affrontare e risolvere) non può diventare un modo per impedire a Israele di concludere efficacemente l’operazione militare.

Secondo. Liberare Rafah non è un capriccio di Netanyahu: stiamo parlando dell’ultima roccaforte controllata da Hamas. E sarebbe assolutamente insensato lasciare questo bastione nelle mani dei terroristi. Da lì ricomincerebbero appena possibile a colpire: ed è esattamente ciò che va evitato. Da questo punto di vista, va ricordato che, dopo il 7 ottobre, tutti - da Washington a Bruxelles - si dicevano concordi sull’obiettivo di distruggere Hamas. Oggi invece chi vuole fermare l’esercito di Gerusalemme sta oggettivamente offrendo un salvacondotto ai terroristi, peraltro adottando il loro stesso schema sia militare che narrativo, e cioè l’uso della popolazione civile palestinese come scudo umano. Sta qui il paradosso nel paradosso: si aiuta Hamas e si finisce perfino per mutuarne il “racconto”.

 

 

 

COSA SI VUOLE DAVVERO?

Terzo. Si continua a ripetere che sarebbe “impossibile” eliminare Hamas. Ma questo non è vero: lo ha dimostrato il successo militare conseguito dagli israeliani a Gaza. Semmai, negli anni passati (si pensi alle timidezze che a lungo hanno frenato Barack Obama contro l’Isis) è proprio quel tipo di argomento che ha legato le mani all’Occidente. La storia ha invece dimostrato che dal 2016 in poi Isis è stata fatta fuori da Mosul e da Raqqa. Il punto - come sempre - è la volontà o meno di conseguire un obiettivo.

Certo, se invece figure di vertice del sistema Onu continuano a negare il carattere terroristico di Hamas, è evidente che qualcuno intenda salvare i vertici di quell’organizzazione, anziché contribuire alla loro eliminazione o cattura. Ieri ad esempio era virale sui social l’incredibile performance televisiva di Martin Griffiths, sottosegretario generale Onu per le questioni umanitarie, che, parlando a Sky Uk, ha testualmente dichiarato: «Hamas non è un gruppo terroristico, è un movimento politico». Quarto. Con tassi maggiori o minori di buona fede, si continua a ripetere da più parti la soluzione dei «due stati». A parole, un’ottima prospettiva. Ma se uno dei due stati dovesse continuare a essere completamente controllato da un gruppo terroristico come Hamas, quale sarebbe la percorribilità dell’ipotesi e la possibilità di convivenza fianco a fianco delle due entità statuali? Nessuna, di tutta evidenza. Ecco perché sradicare Hamas è la precondizione per rendere possibili i due stati. Chi non lo comprende o è molto ingenuo o è molto complice. Tertium non datur. 

 

 

 

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