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Occidente, autocrazie e ritirata: se è una guerra mondiale non la stiamo vincendo

Daniele Capezzone
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Non so se - sia pure in forme disarticolate e inedite - sia già in corso una nuova Grande Guerra, una sorta di Terza Guerra Mondiale. Di sicuro, in diversi quadranti, sono in pieno svolgimento conflitti aspri e dall’esito incerto, tutti in grado di produrre molto sangue in quei teatri e molta incertezza nel resto del mondo. E questi conflitti vanno collocati dentro una ben precisa cornice: il tentativo di alcune autocrazie di riscrivere a proprio favore l’equilibrio e l’ordine globale scaturiti dalla Seconda Guerra Mondiale. Intendiamoci: molte cose dividono Pechino, Teheran e Mosca. Esistono faglie che un’iniziativa occidentale intelligente e determinata potrebbe aprire o allargare in quel fronte, evitandone una definitiva saldatura. Ma prevale un oggettivo interesse convergente, e soprattutto un nemico che Cina, Iran e Russia hanno in comune: e cioè noi, l’Occidente stesso.

Un Occidente per tanti versi sfibrato, flaccido, impreparato agli scenari peggiori, non in grado di sostenere presso la sua stessa opinione pubblica l’esigenza di una difesa da irrobustire e su cui potenziare gli investimenti. Inutile girarci intorno. Quando il “guardiano” è debole - e per giunta appare tale - i “cattivi” del mondo sentono che il momento è favorevole per loro. Joe Biden trasmette visivamente una sensazione di fragilità psicofisica: e la sua politica lascia trasparire la medesima impressione. Questa carenza di leadership statunitense è il detonatore e insieme l’acceleratore della crisi a cui stiamo assistendo.

 

 

FUGHE ED ERRORI
È un fatto che molto probabilmente siano state proprio le modalità umilianti e precipitose della fuga occidentale dall’Afghanistan, a Ferragosto del 2021, ad incoraggiare Vladimir Putin, mesi dopo, a tentare l’avventura in Ucraina. Ancora: è assai probabile (altro errore drammatico) che l’attuale amministrazione Usa si sia illusa di potersela cavare rispetto a Kiev facendo il minimo indispensabile, cioè troppo poco, in termini di aiuto agli ucraini. Contestualmente Pechino, pur assistendo a una sua crescita economica inferiore alle aspettative, non fa nulla per nascondere la sua ambizione egemonica di medio periodo, e - di tanto in tanto - lascia a verbale sortite e provocazioni contro Taiwan.

Non trascurate Teheran: che per un verso nell’ultimo anno ha represso con ferocia disumana il dissenso interno e le manifestazioni dei giovani iraniani per la libertà, e per altro verso sostiene e mobilita i suoi proxy del terrore, da Hamas a Hezbollah passando per gli Houthi. È impietoso dirlo: ma nel quadriennio bideniano, ognuno di questi soggetti - autocrazie e organizzazioni del terrore- ha preso fiducia, guadagnato terreno, scatenato offensive. In un clamoroso capovolgimento dei ruoli, sono stati loro ad aver praticato la deterrenza verso di noi, non il contrario: sono cioè stati loro a usare la forza come monito, come avvertimento, come messa in guardia. Con una risposta occidentale di volta in volta limitata, tardiva, intimidita. Provate a unire i puntini, come nei vecchi giochi di enigmistica: perché in un fazzoletto di giorni - e non si è certo trattato di una casualità - sono venuti da quei soggetti alcuni segnali di scoperta tracotanza, e contemporaneamente sono giunti da Washington e dall’Ue altrettanti segnali di cedimento.

 

 

ALTRI FRONTI
Sul versante mediorientale, la pressione di Biden-Onu-Ue non è contro Hamas né per il rilascio degli ostaggi israeliani, ma è verso Gerusalemme affinché l’esercito di Israele rinunci all’offensiva su Rafah. Ancora, cambiando teatro: è ormai indiscutibile la ritirata ucraina da Avdiivka, nel Donetsk, dove adesso sventolano bandiere russe, con Mosca che mette a segno un punto sia militare che simbolico. E infine: è in queste stesse ore (l’altro ieri) che è arrivata la notizia della morte di Aleksej Navalny, rispetto alla quale c’è poco da discutere (non dispiaccia ai numerosi e a volte insospettabili membri del fan club italiano di Vladimir Putin). Perfino indipendentemente dalla materiale dinamica del decesso, la sola decisione di spedirlo in una prigione nell’Artico russo, tra gelo, condizioni disumane, isolamento, mancate cure, cibo scarso, era oggettivamente volta all’eliminazione definitiva di un personaggio ancora scomodo per il regime di Mosca. Abbiamo letto qua e là - tragicomicamente - interrogativi sul “cui prodest” di questa morte.

Per carità, è vero che, ancora per qualche giorno, la vicenda causerà al Cremlino una certa dose di freddezza da parte delle cancellerie occidentali. Ma - da parte di Putin e dei suoi apparati- prevale la sensazione di una prova di forza, altro che debolezza. Appaiono lontanissimi i giorni in cui l’autocrazia putiniana sembrava vacillare (si pensi alla marcia della Brigata Wagner di Evgeny Prigozhin fermata, dopo una opaca trattativa, a duecento chilometri da Mosca). Da allora, Prigozhin è stato eliminato, e ora non c’è più nemmeno Navalny, che, con le sue campagne anticorruzione, avrebbe potuto increspare le acque della cosiddetta “campagna elettorale” che porterà Putin all’ennesimo trionfo. Il messaggio di Putin è: posso permettermi di pagare un ulteriore costo reputazionale, e dimostrare che sono saldamente al comando, totalmente in charge of the situation. Posso anche concedermi il lusso di operazioni-simpatia come quelle realizzate con il contributo più o meno totalmente consapevole di Tucker Carlson.

IL QUADRO FINALE
Sommando tutti questi elementi - cioè, una volta uniti i puntini, come si suggeriva prima - è fin troppo facile trarre una conclusione politica. Questa “Grande Guerra” forse non ha ancora un vincitore, nel senso che fortunatamente per il momento le autocrazie non sono riuscite a prevalere: ma non stiamo vincendo nemmeno noi, anzi stiamo decisamente perdendo terreno. È come se fossimo in presenza di un nuovo “Afghanistan” accettato da tutti (non solo da Biden), e cioè una complessiva smobilitazione moralmente già avvenuta e materialmente in procinto di concretizzarsi che finirebbe per sancire una sostanziale vittoria russa in Ucraina, per far salvare la pelle ai capi di Hamas ancora vivi, per consentire all’Iran di continuare a tessere la sua tela, e per permettere a Pechino di tempificare e dettagliare la sua strategia di ascesa. Tutto questo significa consegnare al mondo un solo messaggio: che l’Occidente è disposto a mettere in discussione l’intero ordine post-1945. Le democrazie occidentali sono dunque chiamate a una scossa, hanno il dovere di non rassegnarsi, di ritrovare l’orgoglio per i valori che dovrebbero animarle, e al tempo stesso (realisticamente) di guardare negli occhi una realtà cupa, la malattia che ci ha colpito. Da Washington alla Nato, passando per le nostre capitali, qualcuno mostrerà di aver presente il livello della posta in gioco? 

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