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Russia, neanche lo show in stile orwelliano scuote i putiniani di casa nostra, ma i dissidenti...

Giovanni Sallusti
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Potremmo iniziare questo pezzo annotando che ieri, oggi e domani si tengono le elezioni presidenziali nella Federazione Russa, ma sarebbe un classico caso di fallacia semiotica, in cui il suono diverge radicalmente dal significato. Quelle che vanno in scena nel Paese dominato da un autocrate di purissima scuola Kgb (un eterno ritorno dello spirito russo, “AntiOccidente” lo chiamava Milan Kundera) non presentano infatti nessuna delle caratteristiche che il nostro vocabolario prevede alla voce “elezioni”. Contendibilità del potere, pluralismo politico e valoriale, regolarità certificata del voto, libertà sostanziale del medesimo, una campagna elettorale che lo ha preparato, media indipendenti che l’hanno raccontata.

L’unica corsa di Vladimir Putin è quella con se stesso, è quella al periodico (e fittizio) aggiornamento popolare del proprio mito, della propria volontà di potenza. In questo caso, due sono le soglie psicologiche dello Zar, datate presidenziali 2018: il 76,5% delle preferenze personali (punta almeno all’80%) e il 67,6% dell’affluenza (punta almeno al 70%). Per questo negli ultimi giorni ha martellato con un messaggio solo, e ovviamente zero contraddittorio: «Partecipare alle elezioni significa manifestare i vostri sentimenti patriottici».

 

 

 

AMOR PATRIO

Non esercitare un diritto, non scegliere i governanti: reiterare l’amor di Patria, ovvero di Vladimir. Grazie a una “riforma costituzionale” approvata (ma sarebbe meglio dire ratificata dal Parlamento, come avveniva nelle monarchie assolute) nel 2020, Putin potrebbe restare al potere fino al 2036, quando avrà 84 anni. In ogni caso, vuole azzerare i rischi: gli unici “sfidanti” ammessi alla competizione sono gli esponenti della cosiddetta “opposizione sistemica”, sostanzialmente degli sparring-partner, degli utili idioti (non è insulto, è letterale tradizione leninista) buoni a conferire una parvenza di “democraticità” all’autocelebrazione, perlomeno per chi vuole crederci.

I due oppositori che avevano manifestato critiche autentiche, seppur temperate, al regime, Yekaterina Duntsova e Boris Nadezhdin, sono stati esclusi dalle liste elettorali per imprescindibili vizi formali. Erano anche gli unici due candidati contrari alla guerra in Ucraina, pardon, alla grande operazione militare speciale patriottica. Dissidenti meno morigerati, come è noto, o muoiono nei gulag artici (Navalny), o vengono patriotticamente presi a martellate in testa anche fuori dai confini nazionali (Leonid Volkov, assistente di Navalny).

Ora, come neanche questa commedia tragica stiracchiata per tre giorni possa smuovere i putiniani nostrani, ormai tutti allineati nel campo dei sinceri democratici e progressisti (a destra anche Marine Le Pen ha chiarito che un conservatore non può che stare con una nazione libera violata nella sua sovranità), appartiene alla categoria teologica del mistero. Passi per gran dame radical-chic con un debole per l’uomo forte come Ginevra Bompiani, che a Piazzapulita ha tenuto a informarci che «tra Putin e Netanyahu scelgo Putin» (ci mancherebbe, Bibi è perfino sottoposto a quella volgarità che è la contestazione democratica). Ma che leader di partito ed ex presidenti del Consiglio come Giuseppe Conte (assai ciarliero ad esempio a proposito del guardaroba di Zelensky), guru attempati e freschi capi politici come Michele Santoro, fustigatori dei costumi occidentali come Alessandro Orsini, perseverino a mostrarsi sensibili alle ragioni del Cremlino, per essere eufemistici, anche di fronte allo scempio post (?) sovietico del diritto, è troppo perfino per loro.

 

 

 

PROTESTE ALLE URNE

C’è però una ricaduta positiva di quest’allucinazione collettiva che qualcuno chiama seriamente “voto in Russia”. Sono le proteste, sono i russi e soprattutto le russe (si sono moltiplicati per tutto il giorno i casi di donne coraggiosissime) che squarciano la recita di cartongesso, che dicono no alla farsa lì dove ha luogo, nel seggio “elettorale”. Si va dal colorante versato sulle schede monotematiche (Putin e relativi reggicoda) ad alcune molotov scagliate, a Mosca, San Pietroburgo, Rostov. Testimonianze individuali che non invertono la fiumana della storia, ma che perlomeno c’impediscono il racconto farlocco delle “libere elezioni”. La manifestazione più eclatante dovrebbe comunque essere il “Mezzogiorno contro Putin” di domani, rilanciato tra gli altri dalla vedova di Navalny Julia, il quale prevede appunto di presentarsi in massa alle urne nello stesso orario per dimostrare allo Zar (e al mondo) che il dissenso esiste. Anche se nessuno può farci una X sopra.

 

 

 

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