Che siano o non siano state intenzionali, le conseguenze della presidenza Trump sull’Europa sono state rapide e notevoli. Oggi l’agenda di Bruxelles non è più quella che era solo qualche mese fa e non certo per il mutamento degli equilibri politici continentali (che pure ci sono stati). Se oggi la svolta green tende sempre più a sparire dai discorsi ufficiali, se la protervia con cui Bruxelles imponeva all’Europa direttive dettate dalla cultura woke è quasi scomparsa, se lo stesso tema dell’immigrazione viene affrontato con più realismo, ciò in buona parte è dovuto all’azione decisa con cui il presidente americano ha inchiodato alla realtà le élite europee. In una parola, le ipocrisie su cui reggevano le politiche della classe al potere a Bruxelles sono state smascherate. In un mondo ove i conflitti prosperavano già da tempo (era il 2013 quando papa Francesco parlò per la prima volta di “guerra mondiale a pezzettini”), ove l’asse della storia si era spostato ad est mentre il vecchio continente era sempre più marginale in innovazione e potenza tecnologica, l’Europa sembrava vivere in un sogno, o in un universo parallelo. Poteva permettersi il lusso di astrarsi da quanto gli accadeva attorno credendosi addirittura all’avanguardia del mondo con le sue politiche esemplari e con il suo soft power.
Quella europea era un po’ la sindrome del “signorino soddisfatto” che Ortega y Gasset illustra magistralmente nel suo capolavoro, La ribellione delle masse. Convinti che la prosperità raggiunta fosse definitiva e così pure la pace, gli europei non davano peso ai segnali di declino che pure erano evidenti e tendevano a dimenticare che quella pace e prosperità era una conseguenza degli equilibri del dopoguerra.
Uscita distrutta e dilaniata dalla seconda guerra mondiale, l’Europa era rinata e si era mantenuta grazie agli ingenti investimenti, sia militari sia economici, dell’alleato americano. I quali, in qualche modo, ci avevano tenuto in uno stato di eterni ragazzi o adulti mancati che potevano permettersi di vivere a sbafo e coltivare utopie perché protetti da una cappa di vetro. Scoprirsi improvvisamente adulti, e quindi responsabili con le proprie scelte della propria vita, è certamente un trauma, ma è anche un innegabile fattore di crescita. Trump ha denudato il re e l’Europa si è trovata catapultata di colpo, senza salvagente, nelle tempestose acque della contemporaneità. Le quali ci mostrano un mondo multipolare in cui operano da protagonisti immensi e potenti Stati -Imperi. Ora è proprio questa situazione, non il vacuo europeismo lirico del passato, che impone all’Europa una qualche forma di unione, per avere almeno la possibilità di sopravvivere e non soccombere nel gioco di forze globali. Proprio perché basata sulla necessità e non sui desideri, l’idea di una Europa unita e forte acquista forse oggi maggiore plausibilità. Ma essa dovrà per forza di cose essere una Europa del tutto nuova e diversa rispetto a quella che abbiamo conosciuto da Maastricht in poi.
Dovrà concentrarsi a livello centrale sull’essenziale (la difesa, il controllo dei confini, un limitato coordinamento delle politiche nazionali) preservando e valorizzando le ricchezze e le particolarità dei suoi territori. La stessa cifra che caratterizza la storia europea, la libertà, dovrà farsi forza e carne a contatto con la realtà, non lasciarsi abbindolare dalle false seduzioni di una cultura illiberale come quella woke. Sarà irrazionale e imprevedibile quanto si voglia, ma è grazie a Trump che l’Europa ha oggi la possibilità di fare un salto di qualità. A conferma di un fatto indubitabile: sono le esigenze reali dei popoli e dei tempi a muovere la storia e non gli astratti progetti palingenetici elaborati nei cerchi chiusi e autoreferenziali di élite sradicate e transnazionali.