Fondare un centro apposito per permettere a qualche docente fuori dal coro di insegnare da una prospettiva non “di sinistra”. È successo davvero: secondo quanto riportato qualche giorno fa dal Wall Street Journal, l’università di Harvard sta valutando l’idea di creare un “istituto” per intellettuali con visioni “non progressiste”, un piccolo spazio concesso a discussioni eterodosse che però non devono intaccare i canoni ufficiali della “normale” offerta formativa.
Insomma, pur di accontentare in qualche modo l’inflessibile Trump, si vorrebbe creare un’area protetta per conservatori, come si fa con le specie in via d’estinzione. Un po’ come gli orsi polari o altri mammiferi a rischio, i conservatori sono una sparuta minoranza di disadattati. Del resto, fanno notare i progressisti, solo il 3 per cento dei docenti di Harvard si definisce “conservatore”. Guai però a ricordare che questo è il risultato delle decennali politiche di reclutamento messe in atto dagli stessi progressisti. E poco importa se più del 30 per cento dei laureati esprime oggi un senso di disagio nel trattare, in ambiente universitario, argomenti giudicati non convenzionali, o se la maggioranza silenziosa di studenti è fortemente contraria alle imposizioni delle minoranze degli attivisti di sinistra.
La destra culturale americana denuncia da tempo la “monocultura” ideologica che domina l’università e che soffoca qualsiasi diversità di pensiero. Il sociologo californiano Robert Nisbet – uno dei padri del conservatorismo novecentesco – ci aveva avvertiti già nel 1971: l’università, diceva in un suo libro, rischia di smarrire la ricerca della verità per trasformarsi in un apparato che riproduce un’unica ideologia. Ci siamo arrivati!
Lo conferma il biasimo degli intellettuali sinistrorsi che in queste esprimono tutto il loro sprezzante sarcasmo verso il piano di Harvard. È il caso della scrittrice Joyce Carol Oates, che in un post diventato virale irride l’idea stessa di pluralismo accademico, arrivando a paragonare i «poeti che credono nella rima» ai «suprematisti bianchi» e gli studenti che «leggono Tommaso d’Aquino» ai «negazionisti della schiavitù». Il messaggio è chiaro: chi non si allinea al wokeismo va messo alla gogna, altro che programmi di protezione!
Ma il cuore della questione è un altro: perché mai si dovrebbero creare strutture “extra” per garantire i non allineati? Non dovrebbero bastare la curiosità e il senso critico di docenti bravi, al di là del loro personale orientamento, ad offrire agli studenti un ventaglio ampio di idee? In teoria sì, in pratica no. Perché il conformismo è diventata la regola nel mondo accademico, non l’eccezione. E in ambienti dove il 90 per cento dei docenti ammette di riconoscersi in una sola matrice ideologica, chi dissente è inevitabilmente ostracizzato e isolato.
Il dissenso tollerato, oggi, è solo quello in famiglia: «La sinistra che litiga con se stessa», come nota la stessa Oates, è l’unica forma di vivacità culturale ammessa, entro i confini sicuri dell’ortodossia. Si può fare il bastian contrario solo se si rimane nel perimetro progressista. Appena si mettono in discussione i dogmi del politicamente corretto scatta la censura e l’esclusione. Lo si vede nei programmi di studio delle università, e non solo di quelle americane, che in apparenza difendono la pluralità di visioni del mondo, ma i testi adottabili nei corsi sono quasi sempre gli stessi: i vangeli del progressismo.
Siamo alla sovversione completa, in atto sin dal ’68, delle idee di verità, ragione e obiettività. Questa però non è formazione: è indottrinamento. Se l’università smette di essere universitas, ovvero luogo di pluralismo e libertà, per trasformarsi in tempio dell’ortodossia ideologica, non educa: catechizza. Non si cerca più il confronto, ma la sottomissione intellettuale. E la situazione è più grave di quanto pensassimo.