L’Oceano Atlantico è sempre più largo. Anche sul problema del controllo dei confini, ovvero sull’espulsione degli immigrati clandestini. Quello dell’immigrazione, come è noto, è un problema epocale, che va gestito per evitare che un afflusso incontrollato di esseri umani (in cerca spesso di un eldorado inesistente) non distrugga definitivamente la sicurezza e la coesione sociale di Stati non in grado di sopportarlo.
I modi e i tempi di questa gestione sono problema squisitamente politico, di stretta pertinenza dei rappresentanti del popolo democraticamente legittimati. Di diverso avviso è però la Corte di giustizia europea, che è ieri intervenuta a gamba tesa affermando che devono essere i giudici, che già di fatto avevano bloccato con le loro decisioni il funzionamento dei Cpr in Albania voluti dal governo italiano, a valutare, caso per caso, quali siano i Paesi sicuri in cui è possibile rimpatriare i clandestini. Restringendo, fra l’altro, drasticamente il loro ventaglio perché, hanno sottolineato sempre i giudici, «un paese è sicuro se protetta è tutta la popolazione».
In sostanza, la politica, e quindi in qualche modo la stessa democrazia, si trova da questa parte dell’Oceano con le mani legate, impossibilitata a portare a termine il progetto di gestione e controllo dell’immigrazione, che gli era stato affidato dagli elettori.
Una gestione e un controllo che non possono non iniziare, appunto, dall’espulsione e rimpatrio degli immigrati clandestini, cioè di chi ha ritenuto di entrare nei nostri paesi senza rispettare le leggi vigenti (confidando nella tolleranza di fato che finora c’è stata e su cui hanno fatto leva non pochi “trafficanti di carne umana” senza scrupoli).
Del tutto diversa la situazione negli Stati Uniti, ove Donald Trump ha di fatto realizzato il punto del suo programma in cui prometteva di rimpatriare chi era entrato nel paese senza rispettare le leggi, anche attraverso il carcere “Alligator Alcatraz”. Possono piacere o meno, e a chi scrive in linea di principio non piacciono affatto, le modalità altamente scenografiche con cui tutta l’operazione viene compiuta, ma non si può negare che il risultato è raggiunto. Quelle modalità, che i media progressisti globali esasperano per avvalorare la loro tesi di un’America non più democratica, fanno in verità parte di una strategia comunicativa che strizza l’occhio non a dittature del passato (che un Trump probabilmente non sa nemmeno cosa siano state) ma ad una sempre più marcata e postmoderna spettacolarizzazione della politica. Strategie a loro volta democratiche perché tendenti a soddisfare i gusti dell’americano medio, per cui in fin dei conti la politica, oltre a rispondere ai problemi concreti della gente, va vissuta come si vive una partita di wrestling o una sit-com in tv, sprofondati sul divano nel tinello di casa con patatine e birra a far da compagnia. Questo carattere rozzo, grezzo, della politica, esasperatosi probabilmente negli ultimi tempi per reazione all’elitismo dei politici democratici, è una costante della democrazia americana, che già Tocqueville aveva messo in luce senza ergersi a censore indignato. Il modello trumpiano non è ovviamente esportabile in Europa, ove il famoso giudice di Berlino è ormai il padrone del campo e non più l’ultima ancora di salvezza per i giusti.
Ma una domanda sorge spontanea: se la democrazia è rispetto della sovranità popolare e se la politica è la possibilità di scegliere fra alternative e realizzare un programma, è giusto continuare a demonizzare Trump? Siamo proprio sicuri che il male sia tutto da una parte e che chi combatte il “demonio” sia in odore di “santità”. A ben vedere, lungi dall’essere in crisi o finita, la democrazia americana funziona: ognuno alla fine è costretto a stare nel suo e chi governa può realizzare il suo programma senza intralci. Sicuro di essere presto giudicato dal popolo sovrano e, se del caso, mandato a casa.