Una mossa sbagliata nel momento sbagliato. I cui effetti disastrosi si vedono adesso. Chissà se il giorno dopo l’approvazione definitiva del progetto del governo israeliano di dare il via libera alla costruzione dell’insediamento E1 – East 1 – in Cisgiordania, qualche commentatore farà mea culpa rispetto al vento favorevole con il quale ha accolto, il mese scorso, la decisione francese di procedere al riconoscimento dello “Stato di Palestina” a settembre, in occasione della prossima assemblea generale dell’Onu. Un proclama cui si sono accodati, con forme e modalità diverse, Portogallo, Finlandia, Australia, Regno Unito, Canada, Malta e Nuova Zelanda. Una scelta salutata con favore per la necessità di dare più forza alla “parte buona” della galassia palestinese- l’Autorità nazionale governata da Abu Mazen – in nome del principio “due popoli, due Stati”.
Ora, a parte il fatto che una fetta consistente del secondo popolo, quello arabo-palestinese, nella Striscia di Gaza è ancora sotto il giogo di Hamas, che come è noto nega l’esistenza di Israele (quindi il riconoscimento del nuovo Stato, paradossalmente, significherebbe premiare gli autori del massacro del 7 Ottobre). C’è un altro aspetto che non può sfuggire mentre sui giornali appaiono le cartine geografiche con le conseguenze dei futuri insediamenti – 3.400 unità abitative tra Gerusalemme est e la colonia di Ma’ale Adumim – destinati a interrompere la continuità territoriale dell’Anp in Cisgiordania.
Il progetto che «affossa le speranze di uno Stato palestinese» (Corriere della sera) o, peggio, «cancella la Palestina» (La Stampa), non è nato ieri. Le sue origini risalgono addirittura agli anni Novanta, anche ai governi laburisti israeliani. Poi la costruzione dell’insediamento, con un occhio alla realpolitik, è stata accantonata e il provvedimento messo nel cassetto nella speranza di rafforzare, al tempo del negoziato, l’Anp di Abu Mazen.
Questo fino all’altro ieri, quando l’esecutivo di Benjamin Netanyahu - nella fattispecie il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, capofila dell’ala religiosa e nazionalista della maggioranza, la «destra messianica», copyright La Stampa – ha annunciato di aver dato semaforo verde alle nuove costruzioni. E qui entra in ballo Emmanuel Macron e la sua scelta unilaterale di preannunciare il riconoscimento del nuovo Stato.
La forzatura dell’Eliseo - non a caso criticata dal governo italiano, che sul dossier da sempre predica prudenza vista sia la debolezza dell’Anp, sia il ruolo ancora ricoperto da Hamas - ha finito per fornire benzina alla componente più oltranzista dell’esecutivo israeliano.
Invece di offrire una stampella alla traballante amministrazione di Abu Mazen, mai così irrilevante, la fuga in avanti di Parigi ha infiammato la parte religiosa della maggioranza che sostiene Netanyahu. Il solo vagheggiare la nascita di uno Stato palestinese ha offerto un pretesto formidabile per reagire alla destra religiosa, che ha avuto buon gioco nell’ottenere il disco verde dal premier.
Ecco perché quella di Macron è stata una mossa sbagliata nel momento sbagliato. Il presidente francese, e chi l’ha seguito, non solo non ha fatto i conti con il quadro internazionale, con Netanyahu che gode del solido appoggio di Donald Trump, ma neanche con quello interno israeliano. Non era difficile ipotizzare che gli alleati alla destra del premier, nel momento in cui il governo d’Israele è sotto attacco su più fronti, potessero avere mano libera da Bibi, che ha la necessità - e l’interesse - a tenere unita la sua maggioranza parlamentare. La domanda è fin troppo facile: conoscendo le posizioni degli «alleati messianici e oltranzisti» di Netanyahu (stavolta il copyright è del Corriere) era davvero opportuno offrire loro - e su un piatto d’argento - la possibilità di «tagliare in due» la Cisgiordania? C’è più di un sospetto che uno dei chiodi che sta chiudendo la bara dello Stato palestinese sia di marca francese.