In Italia al bar ci andiamo per due motivi: per un caffè o per bere. E magari dimenticare. Alzi la mano chi non si è mai appoggiato in modo goffo a un bancone, in compagnia di un amico o un’amica, per mettersi alle spalle una delusione professionale, sentimentale o per cancellare una giornata storta. Il gin tonic o il negroni sono compagni di viaggio imprescindibili in queste traversate, in solitaria, nel dolore. Ma c'è chi del bar trasformato in muro del pianto ne ha fatto un trend. Scordatevi i piattini e le tazzine di caffè poggiate sui quotidiani che riposano sui tavoli, scordatevi anche le partite a carte tra canuti fino all’ultima briscola mentre due birre ghiacciate arrivano su un vassoio della Cinzano arrugginito.
Dall’oriente più estremo potrebbe arrivare una nuovo modo di intendere il ritrovo preferito da buona parte degli italiani. A Tokyo infatti spopolano da qualche tempo i Crying Café, locali pensati per chi vuole sfogarsi e versare lacrime. L’indicazione all’ingresso è piuttosto chiara: “Negative people only” (“Solo persone tristi”) il resto della ciurma può restare fuori a svagarsi. Il fenomeno ha radici profonde che affondano nel rito del rui katsu, il pianto collettivo che dalle parti del Sol Levante viene esercitato anche all’interno delle aziende. Un incontro fissato in agenda in cui ci si mette a nudo vomitando i problemi, ascoltando quegli degli altri, il tutto piangendo.
In Giappone mostrarsi in pubblico con gli occhi lucidi è segno di disonore e dunque servono spazi pensati di proposito per celebrare questa liberazione dai fardelli che l’animo si porta dietro. Chi mette piede ad esempio nel Bar Mori Ouchi non ha tempo per parlare dell’ultima serie che ha visto o “di quella volta che...” e giù tutti a ridere. No, deve piangere. Stesso destino tocca a chi si addentra nelle “stanze del pianto” dell’hotel Mitsui Garden Yotsua sempre a Tokyo. Un posto riservato solo alle donne che per 60 euro possono piangere a volontà davanti a film dal finale...triste. Nella lista, tra i titoli da scegliere, ci sono “Forrest Gump”, “The Notebook”, “One Day” o “A Moment to Remember”. Il tutto con un solo pernottamento circondati da kleneex soffici, mascherine che scaldano gli occhi e lenzuola schiave di una tempesta di cuscini. Sul comodino c’è anche una collezione di manga rigorosamente dalla trama drammatica per agevolare il pianto.
Luoghi ai confini dell’universo che ribaltano totalmente la nostra percezione, tutta occidentale, del bar. Un luogo diurno per commentare lo sport, un luogo notturno per accogliere le anime in pena che vagano in cerca di consolazione. Ma del resto uno come Morgan ha saputo sintetizzare al meglio il concetto di bar, di ritrovo tra sedie sgangherate e tavoli da biliardo (difficilissimi da trovare in questi tempi dove il design fichetto impera).
Mentre Bugo lo abbandonava sul palco dell’Ariston, Marco Castoldi aveva appena pronunciato queste parole: «Trovati un bar che sarà la tua chiesa/ Odia qualcuno per stare un po’ meglio/ Odia qualcuno che sembra stia meglio». Un manifesto unico per un luogo sacro dove la preghiera si trasforma nel tintinnio della pinza per il ghiaccio e la predica è intervallata da un “non ci pensare”, “dammene un altro” e soprattutto da un imbarazzante “ma che fai piangi?”.