I terroristi rilasciati dalle carceri israeliane fanno paura e sono un’offesa ai morti del 7 ottobre, dicono i parenti delle vittime. Ma se fuori di prigione sono minacce latenti, dentro sono minacce in vitro: dagli anni Ottanta in avanti, infatti, le prigioni israeliane sono diventate un involontario campo di addestramento. Se ne parla da lunedì, quando, poco dopo la liberazione dei 20 ostaggi ancora vivi, Israele ha fatto salire 1.968 prigionieri palestinesi su autobus diretti in Cisgiordania e a Gaza. La maggior parte dei detenuti non era coinvolta nel massacro del 7 ottobre 2023, si trattava di 1.718 persone arrestate durante la guerra perché combattenti o sospettate di legami con Hamas. Vestiti con le tute grigie delle prigioni israeliane, sono scelsi dai pullman e sono stati accolti da una folla che celebrava il loro ritorno.
Quelli che Israele chiama “pesi massimi”, invece, erano 250: militanti di alto rango condannati per l’uccisione di civili, la maggior parte dei quali stava scontando una o più condanne all’ergastolo per attacchi terroristici contro israeliani.
Tra loro, c’è un agente di polizia palestinese che ha partecipato al linciaggio di due riservisti all’inizio della Seconda intifada nel 2000, un abitante di Gaza che stuprò e uccise una tredicenne, un altro che ha accoltellato a morte con un coltello da cucina un’israeliana di 39 con sei figli, un altro ancora condannato per aver coordinato un attentato suicida su un autobus a Gerusalemme nel 2004, in cui ammazzarono 11 israeliani e ne ferirono altri 50. Di più: un condannato a 16 ergastoli per aver organizzato un doppio attentato suicida su un autobus nel 2004, nella città meridionale di Beersheba, in cui 16 israeliani furono uccisi e oltre 100 feriti. Tra le vittime c’era un bambino di tre anni e mezzo, ucciso mentre era seduto sulle ginocchia della madre. Più efferati: un membro della Jihad islamica condannato per aver orchestrato una serie di attentati kamikaze che hanno causato la morte di 13 persone tra il 2003 e il 2005.
Uno l’ha pianificato in una discoteca di Tel Aviv, il secondo in un centro commerciale di Netanya, un terzo in un mercato alimentare all’aperto di Hadera, a nord di Tel Aviv. Detenuti nel carcere di Olfer, 154 di questi non li vuole indietro nemmeno Hamas: affiliati ad Al-Fatah, il braccio armato dell’Autorità nazionale palestinese, sono stati espulsi in Egitto con il benestare di Al-Sisi. Sui muri esterni del centro di detenzione gli israeliani avevano affisso dei manifesti: «Chi minaccia un’inondazione viene annegato e annientato», si legge. Il riferimento è all’ “inondazione di Al Aqsa”, il nome dato da Hamas al pogrom del 7 ottobre.
Gli scambi, dice un funzionario israeliano al Financial Times, sono una “tradizione di necessità” cominciata quarant’anni fa, quando Israele per la prima volta scambiò 8.500 prigionieri con 20 soldati vivi e i resti di altri 8. Gli islamisti impararono la lezione: rapire israeliani serviva per avere indietro i loro. Il valore umano è impari, anche oggi: in proporzione un rapito vale centinaia di miliziani, probabilmente istruiti per far parte della prossima generazione di leader palestinesi, la classe dirigente da un lato, i combattenti dall’altro. Che siano di Hamas, di Al-Fatah, della Jihad islamica o qualunque altro gruppo armato che popola la Striscia, i prigionieri si parlano, «si nutrono delle idee degli altri, studiano e aspettano il rilascio mentre la loro reputazione all’esterno cresce».
Un melting pot del male al quale è stato dato un soprannome: Università Hadarim, dicono i carcerati, dal nome di una prigione israeliana che ospita un polo universitario penitenziario. Una volta laureati, diventano icone della resistenza palestinese: è successo con lo sceicco Ahmed Yassin, rilasciato nel 1985 in cambio di due agenti del Mossad, è stato il co-fondatore di Hamas. È stato ucciso nel 2004. È successo con Yahya Sinwar, liberato nel 2011 con altri 1.025 detenuti in cambio di un solo soldato israeliano: è stato la mente del 7 ottobre. È successo con Zakaria Zubeidi, leader delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa: è stato rilasciato a Ramallah lo scorso gennaio, durante la tregua, in cambio di ostaggi. È successo con Abdel Nasser Issa, catturato nel 1995 e accusato di aver orchestrato attentati, è uno dei fondatori dell’ala militare di Hamas in Cisgiordania, ovvero delle Brigate al-Qassam, quelle che Israele ha combattuto a Gaza.
Trent’anni dopo, condannato a due ergastoli più 7 anni, è tornato libero a febbraio. È una leggenda, al punto da essere considerato un candidato alla leadership.
È successo con loro e sarebbe potuto succedere anche con Marwan Barghouti, popolarissimo componente di Fatah, chiamato il “Mandela palestinese”, leader della Prima e della Seconda Intifada.
Sta scontando cinque ergastoli. Era ai primi posti della lista stilata da Hamas con i nomi dei palestinesi da liberare in cambio degli ostaggi, ma il premier Benjamin Netanyahu non ne ha voluto sapere. Impossibile decidere quale sia il male minore: liberato a febbraio dopo 22 anni di prigione per omicidio, Ammar Mustafa Mardi ha detto al Ft di aver imparato molto durante la detenzione. I suoi compagni di cella sono stati Sinwar, Barghouti e Saadat, colui che nel 2011 assassinò il ministro israeliano Rehavam Zeevi. «Erano come pari tra noi - ha raccontato - Primi tra pari, ci insegnavano qualcosa di nuovo ogni giorno».