Che cosa sta succedendo in Medio Oriente aun mese dalla tregua tra Israele e Hamas concordata il 24 novembre? Per prima cosa bisogna ricordare che a preparare la tregua Hamas-Israele è stata la visita di Mohammed bin Salman a Washington il 17 novembre, con l’annuncio di forti investimenti sauditi negli Stati Uniti, con accordi di collaborazione nel campo della ricerca per l’energia nucleare, e con la vendita dei caccia F 35 all’aviazione saudita.
L’incontro bin Salman-Donald Trump non solo ha preparato il terreno per il completamento degli Accordi di Abramo con la possibile adesione dei sauditi, ma ha anche (quasi) delineato una sorta di “Nato mediorientale”, che, superati i problemi ancora aperti (vedi Stato palestinese), favorisca una sostanziale partnership tra Gerusalemme, Riad, Il Cairo, e così un sistema di sicurezza regionale contro ogni tentativo di destabilizzazione dell’Iran. Le intese tra Washington e Riad sono state poi consolidate, nelle stesse giornate, da una risoluzione Onu sull’istituzione di una forza militare di stabilizzazione multinazionale che sovrintenda alla smilitarizzazione della Striscia collaborando con l’esercito israeliano, con l’obiettivo di una governance palestinese “tecnica” e l’istituzione di un “Board internazionale” diretto dal governo americano che vigili sull’attuazione dell’accordo, e, in questo contesto, avvii un percorso verso uno Stato palestinese indipendente.
È importante che la Russia non abbia esercitato il suo potere di veto: in realtà Mosca non si può permettere di rompere con un Egitto che poi, peraltro, il 17 dicembre ha concordato con Israele un’intesa sul gas naturale del valore di circa 34,7 miliardi di dollari, con forniture al mercato egiziano attraverso la società americana Chevron e partner israeliani.
La Turchia ha in parte contribuito a questi processi di pacificazione del Medio oriente, in parte li ha seguiti da “fuori”, divisa tra un giudizio positivo sui risultati che la tregua porta ad Ankara in Iraq, Siria, Libia, e per l’importante alleato Qatar; e la preoccupazione che un asse Gerusalemme-Riad-Cairo diminuisca l’influenza turca in Medio Oriente.
Il jihadismo incistito in tutta l’area mediorientale grazie all’Iran che finanziava e guidava Hezbollah, Hamas, alawiti siriani, parte degli sciiti iracheni e Houthi, non è ancora del tutto sradicato, come dimostrano alcuni attentati di questi giorni, ma è stato destrutturato dai colpi che aviazioni e servizi segreti israeliani e americani hanno dato all’Iran, e dalle crescente rivolta delle “ragazze senza hijab” che circolano a Teheran e dintorni, quasi ad annunziare una prossima caduta del regime La Cina che aveva usufruito dell’attentato a Israele architettato da Iran e Hamas il 7 ottobre del 2023 per bloccare il “corridoio economico” India – Medio Oriente – Mediterraneo proposto da americani e sauditi nel settembre del 2023, si trova con spazi di manovra molto limitati.
Tutto sommato la situazione mediorientale è per più di un aspetto incoraggiante, ma è ancora largamente a rischio, anche perché condizionata da un quadro globale preoccupante: dall’aggressione russa all’Ucraina che non ha trovato ancora un soluzione; alle mille guerre che insanguinano l’Africa intrecciando corruzione e lotta per il controllo delle materie prime; alle tensioni asiatiche con la spinta egemonistica cinese che minaccia Taiwan e Mare cinese Meridionale; ai sommovimenti in Sud America con al centro lo scontro statunitense-venezuelano; al crescere del jihadismo tra ampi settori di musulmani come conferma la terribile strage di Bondi beach in Australia.
Il mondo vive una fase di grave disordine, e se non si riuscirà, con trattati e soluzioni concrete, a superare o almeno contenere le crisi in corso, e delineare così un nuovo equilibrio globale, il pericolo che il caos prenda dimensioni non più governabili, è grande.
L’azione dell’esercito israeliano ha aperto, pur con le tragiche conseguenze che ogni guerra comporta, spazi per una soluzione alle crisi in un’area fondamentale come il Medio Oriente; nonostante molte rozzezze l’amministrazione Trump ha costruito le basi per una tregua e un possibile asseto pacifico dell’area; sauditi ed egiziani (e in parte turchi) hanno aiutato questo esito. Ora però bisogna, anche per frenare il caos globale, chiudere la partita (si considerino anche i rischi derivanti dalle inopportune iniziative di coloni israeliani in Cisgiordania).
E, in questo contesto, l’Unione europea dovrebbe dare un contributo concreto, non affidandosi solo a dichiarazioni retoriche.
Il problema principale oggi è quello di una forza di pace che presidi Gaza garantendo un processo simile alla denazificazione della Germania post 1945, quando i tedeschi si diedero uno Stato democratico e una ricca economia liberandosi, insieme, dei tragici fanatismi hitleriani largamente analoghi a quelli dei seguaci di Yahya Sinwar.
Naturalmente è utile e necessario utilizzare l’Onu come terreno per accordi geopolitici, ma è retorico pensare che un’istituzione nel cui Consiglio di sicurezza è presente con diritto di veto uno stato come la Russia che da tre anni aggredisce uno stato sovrano, possa essere un protagonista decisivo.
È necessario dunque inventarsi soggetti transnazionali che sostengano lo sforzo di pace american-israeliano e arabo. Forse in questo senso potrebbe essere utile un accordo quadro tra Lega araba e Unione europea.
E magari Bruxelles potrebbe usare l’occasione non tanto per unificare sotto di sé le forze armate degli stati membri (va considerata con attenzione l’esperienza dell’euro con i suoi lati positivi ma anche con gli evidenti limiti), ma per costituire una sorta di Legione europea di soldati professionisti in grado di intervenire negli scenari di crisi. E se questa fosse la soluzione concreta, sempre in collaborazione con la Lega araba questa potrebbe essere anche la forza militare da usare in altri scenari per esempio per far cessare il genocidio in atto in Sudan.




