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Green deal, l'allarme degli economisti: ecco perché fallirà

Francesco Carella
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Nell’èra delle ideologie su base populista il rischio che si corre è di sacrificare i fatti concreti, i quali essendo per definizione complessi richiedono applicazione e ragionamenti, per sostituirli con narrazioni semplificate della realtà non di rado false e fuorvianti. Ed è ciò che sta accadendo intorno alla questione del riscaldamento globale. Si tratta di un abito mentale che nasce alcuni decenni fa nell’area dell’estremismo ambientalista, ma che guadagna progressivamente l’attenzione e il consenso politico-culturale della sinistra. D’altronde se così non fosse non troveremmo un solo motivo per comprendere le ragioni dell’euforia con cui Elly Schlein e compagni hanno accolto l’approvazione della legge sulla natura da parte del Parlamento europeo. Una scelta che, secondo gli esperti, costerà all’agricoltura italiana la perdita di almeno il 10-20 per cento del territorio attivo. Essa si pone in linea con il progetto Green Deal proposto dalla Commissione europea e per mezzo del quale s’intendono ridurre le emissioni nocive del 55% entro il 2030, per giungere alla neutralità climatica nel 2050. Nobili propositi, ma anche un classico esempio di rimozione della realtà effettuale.

Infatti, leggendo i report firmati da scienziati appartenenti a scuole diverse si apprende che il Vecchio Continente «emette molto meno CO2 rispetto a Paesi come Stati Uniti, Cina e India. Siamo nell’ordine di appena l’8% del totale mondiale». La qual cosa significa che il problema climatico o lo si affronta sul terreno globale o è destinato al fallimento. Fallimento che sicuramente ci attende se si continua a ragionare secondo i canoni del negazionismo scientifico, ostinandosi a non dare il giusto peso a quei ricercatori che, partendo dalla constatazione che già «le pratiche agricole dei nostri antenati- circa 8000 anni fa- produssero un aumento dell’emissione di gas serra in atmosfera con conseguente riscaldamento globale», lavorano per conoscere attraverso riscontri sperimentali le vere cause delle attuali distorsioni climatico-atmosferiche e, soprattutto, se esse sono da riportare in capo all’organizzazione capitalistica della società (come demagogicamente affermano dalle parti della sinistra) oppure se sono da mettere in relazione ai cicli naturali del Pianeta. Osservazioni e dubbi che nell’èra delle ideologie populiste non riescono a trovare presso l’Unione europea la benché minima udienza.

 

Intanto, si allarga sempre di più la schiera di economisti ed imprenditori che, dopo avere studiato con attenzione gli obiettivi del Green Deal, si dicono seriamente preoccupati e lanciano l’allarme su quanto possa essere devastante quel progetto in termini di ricadute sul terreno economico, finanziario ed occupazionale. Vi è solo una strada per interrompere questa corsa a occhi chiusi verso il disastro industriale ed è quella di dare maggiore ascolto agli scienziati, che sanno di che cosa parlano e non hanno la presunzione, a differenza della sinistra populista, di fornire indicazioni pubbliche definitive. Per dirla con Luigi Einaudi, mai come in questo tornante della storia occorre «conoscere per deliberare». Intanto, gli analisti dell’Istituto Bruno Leoni non hanno dubbi e scrivono che «Il green deal europeo non è politica ambientale, ma dannosa politica industriale». Mentre il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, mette tutti sul chi vive circa una possibile “crisi di rigetto” come risposta a una eccessiva radicalizzazione delle strategie di politica ambientale.

 

 

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