Cerca
Logo
Cerca
+

Paolo Gentiloni, l'amico del giaguaro: come e perché azzanna l'Italia

Francesco Specchia
  • a
  • a
  • a

In ordine di importanza: c’è il commissario Montalbano, c’è il commissario Rex, c’è il commissario Basettoni. Eppoi c’è il commissario Gentiloni. Paolo Gentiloni, l’attuale “Commissario Europeo per gli affari economici e monetari”, l’artista del sussurro, il Metternich estenuato del cattocomunismo è, suo malgrado, uscito di nuovo dall’ombra. Sospettato di comportamenti improvvidi e antitaliani sul patto di Stabilità e sui vincoli di bilancio europei, Gentiloni viene accusato ora da Matteo Salvini di essere, rispetto agli interessi nazionali, amico non nostro ma del giaguaro. «È fondamentale avere Commissari europei che difendano gli interessi del Paese. Perché ho avuto l’impressione di avere un commissario italiano che giocava con la maglietta di un’altra Nazionale. Più che dare suggerimenti elevava lamenti e critiche» afferma il ministro delle Infrastrutture in un convegno romano organizzato dal Tempo.

FLORILEGIO DI REAZIONI
Alle suddette dichiarazioni, accese da Affaritaliani e rimbalzate su tutte le agenzie stampa del regno, seguono quelle di altri pregiati leghisti, Romeo e Molinari all’unisono: «Gentiloni è Commissario europeo solo del Pd o di tutti gli italiani? Le sue dichiarazioni assomigliano più a quelle di un esponente di sinistra alla festa de l’Unità che a quelle di un Commissario europeo italiano che dovrebbe anche curare gli interessi del nostro Paese». E, a quelle dei pregiati leghisti, si avvicendano perfino gli educati cazziatoni di Antonio Tajani, anima solitamente imperturbabile di Forza Italia: «Io mi auguro che Gentiloni lavori tenendo conto anche di essere il commissario italiano e di avere una visione che non sia quella dei Paesi rigoristi per quanto riguarda la riforma del Patto di stabilità e crescita». Eppure, Gentiloni mantiene l’invidiabile aplomb di uno statista passato di lì per caso.

 


Impassibile, ineffabile, a proposito delle prossime elezioni europee, alla Festa dell’Unità di Ravenna, il Commissario tira la sciabolata: «Chi dice che ci sarà un ribaltone, che si passerà a una maggioranza di destra non fa i conti con i numeri e la realtà»; ed esalta le coscienze ambientali, i diritti delle minoranze, i “valori europei” ovviamente di sinistra. Il risultato è fare incazzare l’intero centrodestra, governo e presidente del Consiglio compresi, che soltanto fino a pochi giorni fa erano convinti che sul Gentiloni schleiniano avesse, alla fine, prevalso il Gentiloni europeo e patriottico. Invece. «Strano che quando al governo c’era il Pd non abbia mai detto nulla. Oggi si scopre un cuor di leone», urlano i capigruppo del Carroccio. Eppure, Gentiloni dovrebbero conoscerlo. Ti distrai un attimo e la sua sonnolenza leggendaria muta in ferocia da lupo mannaro, per quanto una ferocia satinata. Eppure, non dovrebbe essere necessario ricordare quanto le fiammate di Gentiloni risultino un’arma impropria.

Non ci soffermeremo qui, sulla sua biografia frastagliata. Sulla faccenda del cadetto di nobile famiglia romana convertito alla militanza giovanile con l’eskimo al Tasso, liceo della sinistra romana; sui trascorsi con Mario Capanna, col Movimento Lavoratori per il socialismo, o al Manifesto. Una sorta di lento percorso di Santiago politico che, poi, via via ha portato il Commissario a stingersi nel radicalismo di Rutelli (di cui fu il demiurgo nelle elezioni romane), nel prodismo tiepido e nel renzismo pugnace.

Aneliti dell’anima e della poltrona, codesti, che l’hanno spinto più volte alla trombatura politica (l’ultima a Roma contro Ignazio Marino) trasformata sempre e opportunamente nella reincarnazione in una poltrona superiore. Da portavoce a deputato, da ministro a premier a Commisario Ue. Tutto e il contrario di tutto. Non sempre con i risultati sperati. Da ministro degli Esteri, nel 2015, Gentiloni annuncia, come primo atto, di «riportare i marò subito a casa», e poi s’è visto. In merito alla crisi legata all’Isis dichiara: «Se necessario, l’Italia sarà pronta a combattere in Libia contro lo Stato islamico, perché il governo italiano non può accettare che ci sia una minaccia terroristica attiva ad alcune ore di barca dall’Italia», ma il suo decisionismo si perde a Bruxelles. Nello stesso anno, ci avverte dei rischi di infiltrazione terroristica tra i migranti, suscitando ondate di panico, Renzi se lo mangia.

 


Poi si scusa. Si ripete quando, per giustificare l’astensione dell’Italia sulla risoluzione dell’Unesco che nega i luoghi sacri di Israele afferma: «Facciamo così da anni, è l’undicesima volta che l’Italia si astiene», aggiungendo al Corriere della sera «il voto all’Unesco? Un nostro successo». Le comunità ebraiche gli tolgono il saluto, s’inalberano perfino gli americani a cui, da sempre, il conte Gentiloni è vicino. Quando Rutelli finisce in minoranza afferma: «Figuratevi se mi faccio comandare da una banda di ex democristiani». Figuratevi. Stop and Go. Gentiloni sbaglia spesso, ma facendolo con rispetto e sottovoce, la gaffe viene scambiata per strategia. Gentiloni ha successo perché, di solito, nel braccio di ferro dei partiti ha il privilegio di essere l’uomo di sintesi, o - secondo l’ottica - la terza scelta. Oggi, con l’entourage del nuovo Pd, rischia d’essere la prima.

IL RICHIAMO DELLA FORESTA
Finora, come Commissario Ue, Paolone ben si barcamenava: avvertiva i paesi a forte debito (specie l’Italia, senza nominarla) ma sosteneva pure che «l’Unione europea sembra in grado di scampare la recessione»; rampogna il governo sulle indecisioni riguardo al Mes ma pure affermava di «proiettare per l'Italia la crescita più alta tra le maggiori economie europee». Sempre, tenacemente, un colpo al cerchio e uno alla botte. Gentiloni non si candiderà (pare) alle Europee, ma il solo palesarsi dell’urna ha modificato il suo guaito nel richiamo della foresta del Pd. E -cosa più importante- è riuscito a riunire tutto il centrodestra... 

Dai blog