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Paragone, l'Ue è solo un marchio e sbaglia pure le etichette

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Gianluigi Paragone
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Nemmeno il tempo di metabolizzare l’analisi severa di Mario Draghi sull’Europa che Bruxelles ha calato sul tavolo un’altra delle sue solite carte matte. «Vino, milioni di etichette da buttare fuorilegge per un regolamento Ue». Sembra una fesseria, ma a meno di una moratoria (quanto mai opportuna) molte aziende potrebbero perdere una montagna di soldi proprio a ridosso delle festività. La colpa è tutta di un cavillo contenuto nelle linee guida della normativa europea sull’etichettatura dei vini: i soliti “tecnici” hanno deciso che sull’etichetta va scritta la parola “i” di ingredients non ritenendo sufficiente il solo qr-code.

È paradossale che mentre si parla tanto di ecosostenibilità, per un cavillo si debbano buttare al macero milioni di etichette, ma il grosso del danno è che nei palazzi di Bruxelles la burocrazia viene prima dell’economia reale, soprattutto in questo difficile periodo. Secondo l'Unione italiana vini, in Italia si calcola al ribasso qualcosa come 50 milioni di etichette da buttare; e il danno più grosso ce l’hanno i produttori di spumanti perché il processo di spumantizzazione si chiude dopo il 7 dicembre. «È vergognoso: l'Ue continua a non ascoltare i produttori. I burocrati europei vivono negli uffici con aria condizionata d’estate e riscaldamento d’inverno, non conoscono i sacrifici legati al lavoro della terra e i problemi del settore. E ci chiedono di buttare via soldi ed etichette in momento in cui la sostenibilità è tutto», è la voce dei produttori.

Ripeto, questa “carta matta” dal mazzo europeo è una delle tante che fanno uscire di senno gli imprenditori. Sarebbe un danno di poco conto se, di contro, l’Europa avesse un ruolo forte su scala globale. Però non sembra proprio: «L’Europa così com'è non funziona più», ha detto l’ex governatore della Bce Mario Draghi senza troppi giri di parole. Per l’ex premier delle larghe intese la soluzione è che, in un «mondo multicentrico e postatomico, l’Europa diventi uno Stato».

Il ragionamento di Draghi - stimolato dal libro di Aldo Cazzullo - parte dalle considerazioni storiche sull’impero romano e si catapulta in un quello che avrebbe dovuto essere il grande player europeo, autonomo dall’America e dalla Cina, secondo pilastro dell’ordine mondiale. Non abbiamo una politica estera comune, ricorda Draghi; siamo secondi in spesa per la Difesa agli Stati Uniti ma con ventisette eserciti; abbiamo ventisette agenzie per la commercializzazione dei farmaci e tanto altro. Verrebbe da dire, tirando le somme, che l’Europa è un bluff.
Necessario? Secondo molti sì, secondo qualche eretico no.

FUORI DAI GIOCHI
L’Europa non è e non c’è, finanche nelle crisi che la toccano geograficamente più di quanto non tocchino l’America: il conflitto in Ucraina e quello nell’incandescente Mediterraneo mediorientale. L’Europa non tocca palla nemmeno nei movimenti che stanno interessando i Paesi emergenti che, senza privarsi della loro sovranità, costituiscono il cartello allargato dei Brics+ (a breve entreranno Arabia, Emirati, Iran, Egitto ed Etiopia); movimenti che si ripercuotono anche all’interno dell’Opec, non solo perché il Brasile è prossimo ad entrarvi, ma soprattutto perché i Paesi esportatori si stanno accordando per un ulteriore taglio di produzione così da non abbassare la soglia del prezzo al dollaro mantenendola superiore agli 80 dollari. Per la gioia di Russia e Arabia Saudita. E la Cina, grande regista degli emergenti, gongola.

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