Quando i mari sono agitati bisogna rivolgersi ai capitani. In questo caso capitani d’impresa. Antonio D’Amato, napoletano classe 1957, è l’imprenditore giusto per comprendere lo stato di salute dell’economia europea nelle mareggiate violente di questi giorni.
Amministratore delegato della Seda International Packaging Group - leader mondiale nella produzione di imballaggi alimentari operativa in Italia, Regno Unito, Germania, Portogallo e Usa - è co-fondatore dell’Eppa (European Paper Packaging Alliance) e tra il 2000 e il 2004 è stato presidente di Confindustria. Senza dimenticare il lavoro sviluppato e strutturato negli Stati Uniti d’America, recentemente sbarcato anche nel Wisconsin. «La legislatura precedente dell’Unione Europea», ci dice fin da subito, «ha puntato sulla de-industrializzazione del vecchio continente. Una manovra guidata da estremismi ideologici che non conta su analisi scientifiche valide e solide alla base».
Siamo andati, subito, dritti al punto.
«L’industria europea ha perso pezzi interi per problemi di tenuta. Ma non parliamo solo degli imballaggi, parliamo anche di energia, auto e di molti altri capitoli».
Il tutto inseguendo la decrescita felice...
«È proprio questo concetto ad aver messo alla frusta la nostra economia. Le dirò di più».
Dica.
«Quando i ceti medi soffrono, la storia del ’900 ce lo racconta e ce lo insegna, si creano tensioni sociali. Il tutto acuito dall’atteggiamento dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. In questo modo la tenuta democratica va in difficoltà. E l’indecisione della democrazia, che è e resta il miglior sistema politico possibile, si blocca. E questo blocco non ci aiuta in nessun modo».
Come uscire da questo guado?
«Serve avere una visione perché il nodo scorsoio dell’iper-regolamentazione si aggrava sempre di più. Il mondo corre velocemente e nell’epoca di guerre economiche, sociali e politiche l’indecisione ci schiaccia. Non ce lo possiamo permettere».
L’indecisione ci schiaccia tra Usa e Cina?
«Dobbiamo stare attenti. Mentre noi cerchiamo di capire cosa fare gli altri viaggiano forte. La Cina ha una logica di mercato totalmente differente dalla nostra e diventa difficile competere. I cinesi possono godere di aiuti statali, che sono un mantra che interpretano da tempo immemore, e le loro aziende invadono il mondo tramite imprese di Stato o sostegni di Stato».
Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico?
«Non solo nel corso dell’amministrazione Trump, ma anche quella Biden con l’Ira - Inflation Reduction Act considerato il più grande investimento sul clima della storia a stelle e strisce, ndr- ha usato un bazooka fondamentale per il mercato Usa iniettando nell’economia 800/900 miliardi di dollari. Un’iniezione capace di ridare forza al commercio statunitense. Mentre oggi il presidente americano si muove con le tariffe. Ma si sono resi conto che l’economia non può basare il proprio sistema produttivo solamente sui servizi».
E noi rischiamo di essere un gigante coi piedi d’argilla...
«Siamo schiacciati e ci guardiamo nel nostro ombelico. Abbiamo perso a livello europeo e nazionale tutti i campioni dell’industria. Riappropriarci dei nostri spazi ci consentirebbe di essere autonomi. In questo modo potremmo tornare a difendere la nostra sovranità nazionale e continentale».
Vediamo imperterrito un blocco delle regolamentazioni...
«Nonostante questo negli ultimi 20 anni abbiamo dimostrato di essere campioni del mondo dell’economia circolare. Questo ci ha permesso, in primis in Italia, di ridurre l’impronta carbonica che produciamo».
Il vecchio continente, infatti, provoca solo il 7% delle emissioni globali di CO2...
«Perché abbiamo approcciato il concetto in maniera diffusa. Il riciclo di rifiuti è il più avanzato d’Europa e questo ci permette di lavorare in piena neutralità. Quello che mi rammarica è che si pensa all’economia come a un nemico».
Un nemico?
«Sì, un avversario da battere. Spesso si verifica ciò. Basta vedere le continue nuove regolamentazioni stringenti, soprattutto per quanto riguarda il vecchio esecutivo europeo».
Un tentativo di bloccare l’economia?
«Un vero e proprio proibizionismo che metteva in discussione i risultati da ottenere. Da una parte il Parlamento europeo, eletto dal popolo, e dell’altra la Commissione. Una Commissione, quella della scorsa legislatura, con capacità legislativa, ma totalmente autoreferenziale. Teneva la propria linea politica senza cambiare direzione».
Invece ora?
«Questa nuova Commissione ha indicato un nuovo orientamento, anche se le strutture sono sempre le stesse, accompagnate da un’innovata strategia. Però la lentezza è sempre molto alta e questo incide sulla prontezza nell’agire. Così perdiamo terreno, dobbiamo ricordarci costantemente che ci misuriamo con Cina, India e Usa che hanno una velocità di crociera diversa dalla nostra. Noi non siamo in grado di dare risposte concrete».
Gli Stati Uniti d’America provano a punirci attraverso i dazi...
«Da diversi mesi rappresentano il tormentone del momento. Sono un elemento importante, ma ci dimentichiamo che dall’altra parte c’è l’eccesso di regolamentazione dell’Ue che colpisce non solo le aziende europee, ma anche quelle Usa che investono qui. Questo è un elemento di cui non si dibatte, ma che non è da sottovalutare. Certo noi europei, però, subiamo i dazi che creano un clima a livello di rapporti veramente difficile».
Lei ha definito questo momento storico che viviamo una sorta di era del “capitalismo woke”...
«Ci troviamo in una condizione, in Europa, di mercato non aperto, ma offerto. E quindi questa mia consapevolezza trova riscontro in operazioni ogni volta più castranti».
In tutto questo l’Italia?
«Il sistema Italia, oggi, pone grande attenzione principalmente dal punto di vista politico. C’è grande applicazione nell’esecutivo e nel Parlamento. Però restano situazioni difficili dove la cultura dell’iper-regolamentazione colpisce l’industria».