di Selvaggia Lucarelli Sul Corriere della Sera, il buon Aldo Cazzullo ha scritto un pezzo su Pistorius che ha fatto molto discutere nella rete e non. Pezzo in cui sostanzialmente, Cazzullo, sostiene che la presenza di Pistorius alle Olimpiadi sia una forzatura. (sottotesto: le protesi alterano la regolarità della gara), che lo slogan cavalcato dal suo sponsor «Nothing is impossible» sia un inganno, perchè molte cose non sono possibili, anche se le vuoi con tutto il cuore. Che per chi «non può» esistono le paralimpiadi e che in fondo, la storia di Pistorius è più utile al suo sponsor che ai mutilati afghani. L’ho lasciato macerare un po’, l’articolo di Cazzullo. Sono inguaribilmente cinica, per cui ho pensato che tutto sommato, avrei finito per dare ragione a lui. C’era però qualcosa che non mi andava giù , nella sua tesi lucida e gelida e alla fine ho capito il perchè. Non è l’impresa di Pistorius a rischio forzatura, ma un certo tipo di cinismo. Il cinismo di chi svilisce e depreda la poesia di una storia, di chi taglia le gambe alla meraviglia di un atleta senza gambe e di tutti coloro che sentono il vento sulla faccia, quando quell’atleta corre. C’è un cinismo più invalidante di certe mutilazioni che tiene i piedi ben incollati al suolo e ci sono protesi di un materiale più leggero del carbonio, il sogno, che fanno volare i tanti Pistorius sparsi per il mondo. E la storia di quest’uomo è eccezionale non perchè racconta un handicap, ma la potenza di un carattere che scombina il destino. Che non è la banale pappardella a cui accenna Cazzullo del «basta volerlo» o del trito «nothing is impossible». Tanta, troppa retorica - Ovvio che Brunetta non sarebbe il tesimonial di Calvin Klein manco se lo volesse con tutte le sue forze ed è altrettanto ovvio che la forza di volontà possa accelerare quanto vuole, ma finisca sempre per schiantarsi sul muretto duro dei propri limiti. Le frasette ad effetto sono i consueti artifici retorici a cui la pubblicità e lo sport ci hanno abituati da sempre ed è pretestuoso che Cazzullo li citi come a dire «lo sponsor specula su un inganno» solo a proposito di Pistorius. Lo sport è infarcito di retorica, da sempre. E mica solo quello che si pratica su un paio di protesi. «Just do it» o «Write the future», tanto per citare due degli slogan più famosi della Nike, dicono più o meno la stessa cosa (se vuoi puoi) e lo fanno usando come testimonial il piede di Ronaldo o quello di David Beckham, anzichè la protesi in carbonio, ma non è che siano meno retorici. Storie belle - È una favoletta pure la storia che per diventare Ronaldo basti volerlo. Se hai i piedi storti e quando tocchi palla schizza via come le mutande della Tommasi quando arriva un fotografo, non diventi un calciatore di fama mondiale. E manco di fama nella parrocchia del tuo quartiere. Se proprio la vogliamo dire tutta, è la natura, per prima, a alterare la gara. A non dare a tutti gli stessi strumenti, a dispensare forza e talenti a casaccio, a regalare ai neri una muscolatura più agile. E allora che si fa? Si smette di mescolare sport e retorica? Si toglie solennità a un gesto che in fondo è un calcio a un pallone o una sgambettata di dieci secondi su una pista? Facciamo che la pedalata è solo una pedalata e leviamo alla salita, al sudore, alla smorfia di fatica sulla faccia, il potere evocativo e simbolico dello sport quando evoca parole come sacrificio, ricompensa, riscatto? Facciamo che due protesi, che non dimentichiamolo, secondo gli studi biomeccanici non favoriscono affatto Pistorius, non significano nulla, perchè lui è l’eccezione e gli altri senza gambe non riescono manco a fare la corsetta sul lungomare? Allora anche far credere che si possa diventare tutti Ibrahimovic-basta-volerlo è una gran fregatura. E questo è il punto. Lo sport è bello quando racconta una storia, al di là del gesto atletico, e la retorica ci sguazza, come è giusto che sia. L’esempio di Bikila - Jessica Rossi sarebbe rimasta solo una tizia che ha vinto un oro con un fucile in mano, se non ci fosse stato il contorno (retorico, sì) della famiglia che vive nel paese emiliano colpito dal terremoto. Mi viene in mente, quando vedo Pistorius, l’impresa di Abebe Bikila, perchè sono due atleti le cui vite in qualche modo si toccano. Anche lì, leggenda e retorica trovarono linfa nella storia dei suoi arti inferiori. Che non erano due protesi ma, paradossalmente, l’assenza totale di protesi. Neppure due lacci e una suola in gomma. Solo due piedi scalzi. Fu l’apoteosi della retorica, la storia di Bikila. Chissà quali slogan ampollosi e barocchi avrebbero partorito per lui, gli sponsor, oggi. E chissà se Bikila sarebbe diventato Bikila anche solo per quella vittoria, anche senza diventare il simbolo di qualcosa, dell’Africa che si affranca dal colonialismo europeo. Forse Bikila era solo un uomo che amava profondamente lo sport e la competizione, non voleva essere il simbolo di nulla. E lo voleva così tanto, che quando rimase paralizzato a causa di un incidente, anni dopo andò alle paralimpiadi gareggiando nel tiro con l’arco. Ama quello che fa - Forse anche Pistorius non vuole essere il simbolo di un riscatto, di una categoria, dei normodotati o degli handicappati. Forse anche lui vuole solo correre. E non per dimostrare che se vuoi puoi, ma perchè è quello che ama fare. Perchè è il suo carattere. «Watch your character, for it becomes your destiny», recita un detto. Per questo io sento che Pistorius rappresenta qualcosa di più che lo sportivo con handicap. Sento che rappresenta anche me, che le gambe le ho e che a volte, sostenuta dalla passione, ho fatto cose impensabili. E forse non sarà utile ai bambini mutilati afghani, la storia di Pistorius, perchè racconta altro, ma servirà qualcosa a chi amputa le proprie passioni o lascia che deflagrino assieme a paura e impavidità. «Many things are impossibile», certo, Cazzullo. Ma il bello dello sport, e della vita, è che la retorica se ne frega, ogni tanto. (E pure le giornaliste ciniche, ma solo per questa volta).