L'editoriale

di Giampiero Mughini
di Michela Ravalicosabato 12 giugno 2010
L'editoriale
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Nel mio modesto giudizio di cittadino rispettoso della separazione dei poteri, è infernale il meccanismo di una legge che vuole intervenire sulla strumentazione di cui dispongono i magistrati di indagine che cercano di individuare i gaglioffi e i loro reati e, contemporaneamente, sull’uso esuberante che dei risultati provvisori di quelle indagini (atti d’accusa non ancora provate, intercettazioni) fanno i massmedia. È infernale il meccanismo di una legge che mette contemporaneamente le mani sul processo reale e sul processo massmediatico e che, pur di proteggere le vittime innocenti del secondo, finisce col rendere la vita più difficile ai compiti sacrosanti della magistratura indagante e a limarne  le unghie. Tanto più infernale che sul testo di questa legge, di cui Davide Giacalone ha scritto ieri su “Libero” che non può essere tra le più risolutive e caratterizzanti dell’attività di governo, è stato messo a brutto muso il sigillo del voto di fiducia, del prendere o lasciare. Quel che non verrà fatto neppure sul ben più decisivo decreto “anticrisi”. Un prendere o lasciare in tema di intercettazioni telefoniche che ha reso questo governo più debole, non più forte. Un tempo erano chiamate vittorie di Pirro. Un giurista fine e non fazioso come Giuliano Pisapia ha parlato di una legge che era partita da problemi reali ma che finisce per essere “controproducente”. Di fronte a una reazione così compatta di tanti giornali e di tanti magistrati, le battute sull’esistenza di una “lobby dei magistrati e dei giornalisti” valgono poco. E questo perché quella reazione può ammantare di buone e ottime ragioni quelle che lo sono molto meno. Insorgere contro i paletti e gli orologi contagiri imposti a magistrati che vanno contro gang criminali o presumibilmente tali è sacrosanto, e tanto più in un Paese in cui di quelle gang ce n’è di possenti e sanno come nascondersi e acquattarsi. Difendere una sorta di diritto primario di giornali e giornalisti a fare tutto il fracasso editoriale possibile nell’utilizzare “soffiate” di magistrati amici che cercano nei massmedia una vetrina e una legittimazione del loro lavoro è tutt’altra cosa. Sono rimasto ieri stupito nell’aprire uno dei miei quotidiani preferiti, la “Stampa” di Torino, e trovare che due ottimi giornalisti quali Massimo Gramellini e Jena Ridens avessero aderito al cento per cento alla campagna contro la “legge bavaglio” al punto di lasciare completamente bianco lo spazio solitamente riservato alle loro rispettive rubriche. Uno spazio bianco com’è avvenuto nei giornali del tempo della Prima guerra mondiale o di altri momenti drammatici della storia del Novecento. E questo spazio bianco perché “la legge sulle intercettazioni” impedirà di “affrontare gli argomenti che nutrono da sempre i corsivi di satira e di costume”. Sarà stata una mia disattenzione di giornalista uso a prendere per buone le “notizie” com’è del ragù alla napoletana, e cioè dopo molte molte ore di cottura, ma non mi ero mai accorto che le righe sempre saporite di Gramellini e di Jena Ridens fossero particolarmente alimentate dal fatto che era stata scaraventata sui giornali quella tale intercettazione su Massimo D’Alema che stava parlando al telefono con Giovanni Consorte a proposito dell’eventuale ingresso delle Coop nella proprietà di una banca, oppure quell’altra intercettazione telefonica sul figlio di Luciano Moggi che ci aveva “provato” con una bella conduttrice televisiva. Oppure da mille altri casi in cui la furia massmediatica s’è scatenata a danno di Tizio o di Caio, e in novecento di quei casi s’è poi rivelato che solo di fuffa si trattava. Chi ha vissuto i giorni più furenti di Tangentopoli, sa di che cosa sto parlando. E quando ho detto di Tizio o di Caio, è beninteso che mi riferisco a Tizi e Cai di qualsiasi tribù e colore politico e etnia culturale. Ho cento difetti, ma non quello che lo scrittore austriaco Robert Musil attribuisce al “cretino dei nostri giorni”. A quello che va in brodo di giuggiole se i magistrati mettono nel mirino uno che gli sta politicamente antipatico; e che invece accusa i magistrati di essere dei poco di buono se mettono nel mirino un suo amico e sodale.