Quando a distanza di duemila anni due grandi poeti s’incontrano nel rispetto delle leggi dell’ospitalità, l’appuntamento può avere la forma inusuale delle nozze poetiche. È il caso del sodalizio durato mezzo secolo fra Tito Lucrezio Caro e Milo De Angelis (De rerum natura di Lucrezio, Mondadori, 2022, euro 24, pp.544), che ha dedicato il suo miglior tempo allo studio e scavo filologico-critico di un’opera immensa come il De rerum natura, il poema sulla natura scritto dal misterioso autore latino, rimasto pressoché sconosciuto per troppi anni, ma figura dominante della “razza” dei grandi autori solitari e “fuori luogo” come Nietzsche o Campana, che hanno saputo interpretare la poesia come un atto per vivere o morire insieme ad essa.
Non bastò a rivalutarlo la lode di Ovidio in Amori: i versi del sublime Lucrezio si dissolveranno solo quando l’intera terra cadrà in rovina. Né fu di molto aiuto l’apprezzamento di Cicerone, il quale, nonostante il suo antiepicureismo, curò l’edizione postuma del poema in cui, al contrario, viene elogiata ed esposta la dottrina di Epicuro, il greco impegnato a “spalancare per primo le porte sbarrate della natura” e a non farsi ingannare dalla religio e dalle favole tramandate sugli dèi, chiusi nei loro mondi iperuranici. E che, nel suo ruolo di eresiarca, si ritrovò simbolicamente confinato con i suoi seguaci nel cimitero infuocato dantesco, per espiare la colpa di non credere all’immortalità dell’anima.
Della vita di Lucrezio non si sa quasi nulla (96-55 a. C.). La sua storia è avvolta dalla leggenda della sua rinuncia alla dimensione mondana. Anche la sua tragica fine, tra una dubbia pazzia e un presunto suicidio, nulla aggiunge a quanto occorre sapere per cogliere il pathos con cui ci conduce fra le ombre e le luci dell’anima, spaziando nell’universo. La sua biografia è l’opera stessa. È ciò che scrive. È certa invece la fonte alla quale attinge: i sapienti greci, gli antichi maestri come Epicuro, dal quale raccoglie il testimone per spiegare, più liricamente che scientificamente, la sua idea di universo. Suggestiva è la descrizione della caduta non verticale degli atomi, in quanto soggetti a una deviazione (clinamen) che consente loro di aggregarsi o disaggregarsi. Atomi in perpetuo movimento nel vuoto, da cui deriva il rinnovarsi dell’universo e di una pluralità di mondi svincolati dall’ intervento divino. Pure unità di corpo e anima, è Lucrezio, che racconta la grandezza e la tragedia della condizione umana in cui coesistono il nulla e l’infinito.
Dopo aver invocato Venere, immagine della universale maternità, Lucrezio tesse questa partitura in cui nulla si genera dal nulla. “Nessuno più di lui” scrive De Angelis, “ha raccontato con tanta furia di visioni il nulla in cui si esaurisce in una vita di feste e di piaceri…nessuno ci ha fatto vivere l’immensità degli spazi celesti, la devastazione dei fulmini e dei terremoti…”. Le lancinanti rappresentazioni lucreziane (l’universo senza mura e confini, il sacrificio di Ifigenia, dilaniante come il delirio di Cassandra nell’Alessandro di Ennio), prive di qualsiasi compiacimento per la pervasività del nulla, ci parlano di una natura sorda davanti al grido dell’uomo, sospeso tra due vuoti e sbranato sia dalla propria inquietudine che dal leone, fino al terribile epilogo della peste ateniese, in cui viene raso “al suolo il significato stesso della condizione umana”.
Acquisito il fatto che nessuna traduzione può restituire con pienezza il testo sia nei suoni che nei modi retorici di una lingua storicamente diversa, la versione deangelisiana sembra nascere dall’urgenza di traslare Lucrezio non solo su un piano di plausibile adesione alla nobiltà dell’esametro, introdotto nella letteratura latina da Ennio con i suoi Annali, ma lavorando pure sulle “varie combinazioni di endecasillabi e settenari” per contrarre le parti più liriche, o puntando “sui versi dalle sillabe pari per certi finali ieratici”, più vicini alla petrosità dell’epigrafe. “Tradurre” precisa nell’introduzione, “significa rinnovare le leggi dell’ospitalità, adattarle allo straniero che abbiamo incontrato e che vogliamo conoscere”, che ci ha ospitato nel suo universo e che ora verrà accolto nella “Dimora del nostro stile”. Vi è quindi anche un piano di fraterna prossimità, fino al punto di non poterne fare a meno, così come accade con una parola decisiva o uno sguardo che si rivolge all’assoluto. Tuttavia non è questa la sede per dirimere la vexata quaestio del tradurre, dopo la sicura e inimitabile mano con cui De Angelis (è del 2005 il suo libro Sotto la scure silenziosa, Frammenti dal «De rerum natura», SE) è ritornato su Lucrezio con la convinzione che ogni traduzione è soprattutto una trasposizione di stile.
È dunque alto il profilo di leggibilità raggiunto da questa versione, e molte sono le asperità linguistiche risolte con espressioni meno impervie di quelle originarie. D’altra parte è lo stesso Lucrezio a essere severo con i suoi mezzi, quando lamenta i limiti espressivi della lingua latina e la conseguente necessità di tradurre con parole nuove le oscure scoperte fatte dai Greci. Ciò non esclude, secondo De Angelis, che l’enfasi retorica e la ripetizione di parole e concetti, possa rispondere anche a una “intenzione stilistica” per entrare nel perimetro ossessivo dove l’incubo getta le sue ombre sulla soglia dell’allucinazione, che sappiamo essere estranea all’imperturbabilità spirituale e maggiore precisione filosofica di Epicuro.
Ma è proprio sul versante della poesia che il pensiero si fa disegno cosmico della vita e che il tono si carica di affanno e d’ansia. Sta qui lo scarto tra il registro poetico lucreziano e quello filosofico dell’uomo greco, la differenza tra il divenire angoscioso verso qualcosa che si sottrae alla presa dell’uomo e l’assenza di dramma nel pensiero del greco, non così lacerato dal turbamento che ricorre nella poesia dell’erede latino. Anche nei momenti più contemplativi l’atarassia indagata da Lucrezio viene faticosamente raggiunta dagli uomini attraverso la lotta, la tensione dell’arco e il brivido dei nervi. Uomini che in piena luce hanno l’ingiustificata paura di qualcosa che non esiste, mentre i bambini, resi ciechi dal buio, hanno motivo e diritto di tremare per un nonnulla.
Fra i massimi e più rigorosi poeti del nostro tempo, De Angelis abita il campo semantico di quest’opera avvolta dalla grazia della poesia, per restituirci un testo d’inquietante modernità e di una potenza visionaria così esemplare da infiammare stilisticamente il verso. È come se Lucrezio avesse avuto bisogno dell’efficacia visiva di questo linguaggio, e De Angelis di farvi appello per dire una parola definitiva e nuova, come auspicato da Leopardi. La voce di Lucrezio appare più vicina a noi di quanto il tempo trascorso non dica. Come in una ideale rivincita, attraverso le intuizioni e le ragioni lucreziane colte De Angelis, il poeta latino parla con una lingua che ci sembra di avere udito ma che abbiamo dimenticato. E con lo sguardo che viene da lontano e il cielo negli occhi, si fa nostro insostituibile faro e guida. “Guidato passo dopo passo, ti basterà un piccolo sforzo:/ogni concetto ne chiarirà un altro e il buio della notte/non frenerà più il tuo cammino e tu conoscerai gli arcani /della natura: così ogni cosa accenderà ogni cosa”.