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“The years we have been nowhere”, il documentario in Sierra Leone che debutta a Milano

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Ideato dallo scrittore e regista Lucio Cascavilla e dal regista e produttore Mauro Piacentini, questo documentario ha il coraggio e la forza di raccontare realtà contrastanti. Ci si chiede: perché due giovani laureati, colti e di buona famiglia, decidono di mettere in scena ciò che oggi colpisce al cuore: l'indifferenza? La frase: “siamo tutti fratelli”, funziona solo per pochi, l'amore e l'altruismo rimangono chiusi in una stanza buia, dopo aver gettato la chiave. Infatti, Cascavilla e Piacentini sottolineano: “Il mondo è un villaggio globale”, ma non per tutti. Il nostro film è un grido di dolore e di denuncia, ma anche uno sguardo su di sé per riflettere”. Raccontare questi argomenti è sempre difficile, perché si rischia quasi il patetismo spettro spesso incombente. Qui però è diverso: la verità si unisce alle incertezze, ma anche alla voglia di vivere. Il filo conduttore del film sono le storie di Sulemain, Fatima, Kama Kuye e Patrick, che hanno lasciato Sierra Leone in cerca di un futuro migliore. Con il tempo sono riusciti a costruirsi un lavoro e una famiglia in Europa e negli Stati Uniti, ma a causa della situazione burocratica e di alcune infrazioni amministrative, sono stati strappati alle famiglie e rispediti al loro paese d'origine. Ne parliamo con Mauro Piacentini, laureato in cinese all'Università Orientale di Napoli, (lingue e civiltà orientali), e diplomato in regia all'Accademia di Pechino.

Piacentini, quando è nata l'idea di realizzare questo docufilm?
“Con Lucio Cascavilla ci conosciamo da lungo tempo, insieme abbiamo studiato le lingue orientali. Siamo diventati degli esploratori sempre convinti che avremmo arricchito la nostra conoscenza di vita. Lui vive in Congo, ed è sposato. La sua permanenza in Sierra Leone mi ha permesso di raggiungerlo e di realizzare questo progetto. Abbiamo sempre parlato di cinema, sin dagli inizi dei nostri studi”.

Cosa vi ha incuriositi della storia che volevate raccontare?
“La vita, i passaggi che hanno vissuto i protagonisti, ma c'è voluto del tempo per avere la loro fiducia. Quello che raccontiamo è il rimpatrio forzato. Si parla sempre dei flussi migratori, ma si mette poco l'accento su questo argomento che continua a verificarsi. I rimpatri avvengono la notte sia in Germania che in Francia, su aerei di linea”.

Cosa la spaventa in questi casi?
“Solo la disumanità della violazione dei diritti umani. In Italia già è diverso, tentano sempre di trovare una soluzione positiva. Guardiamo Lampedusa, sono ancora li Anche noi siamo stati aiutati per realizzare il documentario”.

Cosa si aspetta dal debutto milanese?
"Il pubblico milanese è sempre importante per tutti i registi. Milano è il motore dell’Italia, una città che continua ad avere uno sguardo onesto e dinamico in tutto ciò che accade”.

Prossimamente?
“Spero di potermi dedicare ad un nuovo progetto, per continuare a raccontare mondi diversi. Sì, rimango un cittadino del mondo, ma non dimentico la mia Italia”.

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