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Lavoro agile alla fase due: flessibilità e produttività

Luigi Merano
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Smart working sì o no? Finita l’emergenza Covid, l’innamoramento collettivo per il lavoro da remoto ha iniziato a scemare, insieme all’emergere dei limiti di un modello organizzativo adottato molto velocemente e di cui, all’inizio, non erano chiari gli effetti a lungo termine. Tanto che oggi moltissime aziende stanno facendo un ‘tagliando’ allo smart working, per meglio adattarlo alla realtà post pandemica. L’obiettivo della revisione in atto a livello globale è quello di interpretare gli impatti della pandemia e della digitalizzazione forzata delle persone per separare le reazioni strettamente emergenziali dalle nuove sperimentazioni lavorative.

In quest’ottica, lo smart working può continuare a giocare un ruolo ma deve evolvere nelle modalità di fruizione e negli obiettivi.Se dunque qualche anno fa sembrava un sogno poter abbandonare gli uffici, dimenticarsi del traffico e della routine quotidiana, con il tempo sono apparse anche criticità. Persino l’OMS ha messo in guardia da effetti collaterali, che vanno dalla depressione da isolamento fino a rischi per la salute fisica, nel caso di una modalità di lavoro esclusivamente da casa come avvenuto durante il lockdown.


Secondo i dati dell’Indagine Confindustria sul lavoro del 2023 una quota delle imprese ha segnalato, come potenziali risvolti negativi, difficoltà di comunicazione tra il personale e affievolimento del senso di appartenenza all’azienda, ma anche possibili situazioni di conflitto tra quei dipendenti che possono utilizzare lo strumento e quelli che invece svolgono attività non remotizzabili. Interessante notare che la ridotta interazione tra colleghi potrebbe limitare la capacità di innovazione dei team.

Si è inoltre capito che stare a casa può anche provocare il timore di essere marginalizzati e di subire un rallentamento professionale, in quanto comporta perdere momenti chiave, aggiornamenti e, in definitiva, quelle opportunità di crescita che scaturiscono dal contatto diretto con i colleghi e l’ecosistema aziendale. Un tema particolarmente rilevante per i più giovani che, più degli altri, necessitano di essere immersi nel lavoro di squadra per assorbire e apprendere.

NUOVI PROBLEMI
Oltre al parere delle aziende c’è poi l’esperienza di ciascuno di noi. Accanto ad indubbi vantaggi, abbiamo dovuto affrontare nuovi problemi: riunioni interminabili via Teams a tutte le ore, spesso di dubbia utilità, e orari saltati senza rispetto per la pausa pranzo o la fascia serale. Insomma, un lavoro che, tracimato al di fuori delle mura dell’ufficio, invade senza limiti le case e la nostra vita privata, con riverberi sugli equilibri famigliari. Senza contare un elemento di discriminazione non banale: non tutti vivono in un’abitazione sufficientemente grande e confortevole da poter ospitare uno o più ‘uffici improvvisati’.

Un problema non di poco conto se si pensa che, secondo le stime dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, nel 2023 in Italia il 96% le grandi imprese prevedeva iniziative di smart working e nel 2024 saranno ben 3,65 milioni gli smart worker in Italia, il 541% in più rispetto al pre-Covid.

Vista l’importanza e la diffusione di questo strumento, a quattro anni dal primo lockdown è quindi giunto il momento di fare tesoro dell’esperienza, senza buttare via il bambino con l’acqua sporca, per guardare con lucidità a quello che ormai da rimedio emergenziale sta diventando elemento strutturale, seppure con correttivi importanti. Molti colossi internazionali, quali Amazon, Google, Meta e JP Morgan, hanno ridotto i giorni di smart working riconoscendo che il lavoro in presenza è una condizione necessaria per il mantenimento del posto di lavoro e si registrano anche casi di frenate piuttosto brusche, come per IBM, che ha chiesto esplicitamente ai propri manager di ritornare in ufficio per almeno tre giorni alla settimana o di lasciare il gruppo.
Anche in Italia si sta riscoprendo il valore del giusto equilibrio tra lavoro in sede e da casa. Dopo il lockdown e la lunga coda di “remotizzazione” pressoché totale delle attività, si torna a riscoprire l’importanza dei luoghi di lavoro come fondamentali per la coesione e la ricarica emotiva delle persone e si è compreso che la dimensione relazionale, basata sull’incontro fisico e tangibile, non può essere sostituita da quella esclusivamente virtuale.

La convergenza generale delle grandi imprese nazionali va verso una presenza in azienda per circa il 60% del mese per coloro che svolgono attività pienamente remotizzabili. Si va tendenzialmente dagli 8 giorni mensili di disposti da Terna, Eni e Leonardo a casi più generosi, come Enel e Poste, con 9 giorni; fino agli 11 di Ferrovie. In alcuni casi, come quelli di Enel, si garantisce anche extra flessibilità ai dipendenti, riconoscendo giorni aggiuntivi a fronte di situazioni particolari (maternità, paternità, disabilità, caragiver e così via). Numeri in linea con quelli di chi ha optato per un tetto complessivo di giornate su base annua, come Banca d’Italia (100 giorni).

Diversi osservatori segnalano che la vera maturità nell’adozione dello smart working non sta nella quantità di giorni assegnati, ma nella capacità di gestire lo strumento: sia per garantire alle persone un buon equilibrio tra vita privata e lavoro, sia per assicurare l’indispensabile raggiungimento degli obiettivi aziendali. Si dovrebbe quindi lasciare ai team la libertà, e al tempo stesso la responsabilità, di organizzarsi autonomamente.
Proprio la direzione in cui hanno scelto di muoversi molte di queste grandi aziende.Si delinea quindi la strada per l’utilizzo consapevole e più evoluto del lavoro da casa che continuerà sì, ma con modalità davvero ‘smart’ che migliorino l’efficacia e il benessere delle persone.

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