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"Mercenari". Domenico Vecchioni ci accompagna in un viaggio nella storia della guerra di ventura 

Marco Petrelli
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“Salvai monache e frati dal rogo del ribelle/Ma l’ONU se ne frega se brucia la mia pelle. Se la mia pelle brucia è perché son mercenario/e il Papa se ne frega e sgrana il suo rosario” cantava il Bagaglino a metà degli Anni Sessanta. La rassegna di Pierfrancesco Pingitore e di Raffaele della Bona era nota per i contenuti di forte satira e critica sociale. E canzoni come Il Mercenario di Lucera figuravano quale allegoria del guanto di sfida lanciato alla società italiana del tempo, mondo piccolo borghese in equilibrio tra il benessere del boom e l’imminente stagione della Contestazione sessantottina che avrebbe cambiato quel mondo per sempre. 

La prima metà degli Anni Sessanta fu l’epoca d’oro dei mercenari, ex ufficiali e soldati belgi, britannici, francesi che, deposta l’uniforme degli eserciti di apparteneneza, arruolava compagnie di combattenti pronte ad intervenire nei conflitti che insanguinavano l’Africa della decolonizzazione.

Il Mercenario di Lucera, che “aveva 40 anni e la fedina nera”, canta il suo epitaffio nel Katanga, provincia separatista del Congo, teatro di un conflitto civile che vedeva l’ONU schierato con il primo presidente del Congo indipendente Jospeh Kasa-Vubu ed il Belgio che cercava di mantenere il controllo sulla provincia ricca di giacimenti minerari, ricorrendo anche ai soldati di ventura.

Con l’occhio di oggi è facile comprendere come la causa di quei mercenari, una continuazione europea in Africa, fosse già allora stantìa e obsoleta. Loro malgrado, i mercenari del Congo furono gli anti eroi di un mondo in veloce trasformazione, l’ultima linea di difesa di imperi coloniali dapprima idolatrati da politici e popoli, poi rapidamente dimenticati ed accantonati. Un fascino “maledetto” che finì per conquistare avventurieri lanciati conquistati da nomi e luoghi esotici, in un'epoca in cui internet non c'era e le foto delle riviste e dei giornali accendevano sogni ed entusiasmi. Come fu, forse, per il mercenario pugliese.

La millenaria storia della guerra di ventura è stata celebrata da canzoni, dipinti, letteratura, cinema. E come potrebbe essere diverso: il combattente irregolare, senza patria né bandiera, che si batte per appagare il suo desiderio di bottino o per inseguire sogni e glorie sui campi di battaglia. 

Figura romantica e maledetta, odiosa e di incredibile fascino analizzata dal diplomatico e saggista Domenico Vecchioni nel suo Mercenari. Il mestiere della guerra dall’antica Grecia al Gruppo Wagner (Ed. DIARKOS, 2024), ultimo di una lunga serie di lavori dedicati a pagine ed episodi della storia, remota e prossima: traditori, spie, operazioni d’intelligence, Legione straniera.

Un viaggio avventuroso, nel solco del rigore storico, dall’antichità ai giorni nostri, passando per nomi, luoghi, personaggi che magari nessuno di noi aveva mai sentito prima.

Un po’ come quando, dopo aver letto Washington Irving ed aver visto il capolavoro di Tim Burton La leggenda di Sleepy Hollow, ci siamo domandati se il “cavaliere era un mercenario dell’Assi inviato da una principessa tedesca per tenere gli americani sotto il giogo dell’Inghilterra” di Balthus van Tassel fosse solo invenzione cinematografica.

Gli assiani, i mercenari tedeschi della corona britannica, erano reali. Molto reali. Tanto da ispirare uno dei più famosi personaggi della letteratura d’orrore: il famigerato Cavaliere senza Testa… Buona lettura, prima con Mercenari di Domenico Vecchioni poi, perché no? Con Sleepy Hollow di Washington Irving!

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