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Fabio De Pasquale e la promessa a Gabriele Cagliari: "Lei me l'ha messo in c***, io devo liberarla". Non lo fece e il manager si suicidò

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Noi facciamo spallucce. Le facciamo da quando lo vedemmo mangiare con le mani in un ristorante africano in zona Buenos Aires (Milano) e da quando aveva i capelli lunghi e perseguiva i «potenti» prima, durante e dopo Mani Pulite. Non abbiamo bisogno di ricordare Fabio De Pasquale nella versione «il capitalismo è una cosa sporca», come disse al Giornale del 10 ottobre 1996, o quando giudicò «criminogeno» il Lodo Alfano sulla giustizia, nel settembre 2008. Noi ricordiamo altre cose: il suo essere di sinistra, che mai nascose; l'inchiesta sui fondi neri Assolombarda (1992-93) quando l'intero Parlamento, sinistre e forcaioli compresi, respinsero le richieste di autorizzazione a procedere per Altissimo e Sterpa (liberali) e per Del Pennino e Pellicanò (repubblicani) chieste da un magistrato, lui, il cui intento fu giudicato «persecutorio» dall'intero arco costituzionale.

Ma il nostro pezzo prediletto resta quando disse al detenuto e manager Eni Gabriele Cagliari: «Lei me l'ha messo in culo, io devo liberarla», e poi no, non lo liberò, e lui si suicidò: ma questo resta il pezzo forte, lo teniamo per dopo. Prima c'è da ricordare quando De Pasquale inquisì Giorgio Strehler e chiese la pena massima (1993) dopodiché il regista disse che non sarebbe più rientrato in Italia, se non da assolto: infatti lo fu («per non aver commesso il fatto») e le 52 cartelle di motivazioni sono del 1995, mentre la morte di Strehler a Lugano (che non è in Italia) è del 1997. Non fece mai parte del pool Mani Pulite, anzi, lui e gli altri pm non andavano d'accordo per niente. Si ricorda, nel tardo settembre 1993, un suo litigio furibondo con Antonio Di Pietro: era successo che un latitante, sbarcato a Linate, si era consegnato a Di Pietro nonostante fosse ricercato da De Pasquale. Volarono urla, al pm più famoso d'Italia furono ricordate certe sue frequentazioni. La futura moglie di Di Pietro, Susanna Mazzoleni, denunciò che un capitano che collaborava con De Pasquale le aveva rivolto insinuanti domande sulle frequentazioni del marito.

 

 

 

 

Per uno degli episodi più raccapriccianti di quel periodo, poi, aveva preso le distanze anche il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli. Su mandato d'arresto del pm De Pasquale, la tarda sera del 28 maggio 1992, 14 agenti irruppero a casa dell'ex assessore regionale socialista Michele Colucci a mitragliette spianate; intanto, davanti alla caserma della Guardia di Finanza di via Fabio Filzi, in trepidante attesa, bivaccavano parenti, amici, giornalisti, fotografi, cameramen e una piccola folla di curiosi. La via era transennata e illuminata a giorno, circolavano panini e birre, le auto con a bordo gli arrestati rallentarono a cinquanta metri dal bivacco per dar modo alla stampa di prepararsi, poi ripartirono a sirene spiegate non transitando però dal passo carraio, come normale, bensì bloccandosi davanti all'ingresso pedonale così da far sfilare gli arrestati uno ad uno.

E fu ressa, flash, spintoni, parenti e fotografi ad azzuffarsi: l'arrestato Colucci, malfermo sulle gambe, fu trascinato a braccia nella calca e appena entrato in caserma crollò a terra per un edema polmonare. Venne a prenderlo un'ambulanza e il poveretto venne fatto ripassare in barella tra le forche caudine della stampa: la folla si strinse attorno a un corpo privo di sensi, coperto da un lenzuolo, e un giornalista gli piazzò il microfono davanti alla mascherina dell'ossigeno. Un discreto schifo. In precedenza, De Pasquale aveva ottenuto per Colucci il provvedimento del confino, soluzione adottata di norma per i mafiosi: poi, arrestato, le sue condizioni si fecero drammatiche, ma l'atteggiamento di De Pasquale rimase inflessibile, tanto che fece di tutto per farlo finire comunque a San Vittore anziché in ospedale.

La figlia di Colucci, giornalista della Rai, fece un pubblico appello che fu raccolto anche da politici e da giornalisti come Gad Lerner. Michele Colucci si fece nove mesi di carcerazione detentiva e poi fu prosciolto in Cassazione. Dopo quell'episodio legato all'indagine sui fondi Cee (che ebbe percentuali d'assoluzione mostruose) Borrelli vietò i preannunci degli arresti da parte delle forze dell'ordine. Poi vabbeh, c'è il caso Cagliari, e noi facciamo spallucce, dicevamo: perché per noi Fabio De Pasquale era e resta quello lì, e non ce ne frega niente se gli ispettori ministeriali scagionarono il magistrato. Fu «indagato» per l'indagine di allora, Eni-Sai, e potrebbe esserlo per quest' altro processo, Eni-Nigeria: ma è un magistrato, punto. Ai tempi, comunque, il 15 luglio 1993, l'indagato galeotto ed ex presidente Eni Gabriele Cagliari rese una confessione che incontrò le attese di De Pasquale (ossia menzionò Craxi) e il pm spiegò quindi ai legali che Cagliari presto avrebbe lasciato il carcere. De Pasquale cambiò idea il giorno dopo, ma non avverti neppure la difesa: si limitò a passare al gip un parere ancora una volta negativo e qualcuno avverti i giornalisti, tanto che il giorno dopo l'avvocato di Cagliari apprese dalla radio che il pm si era rimangiato la promessa, e che l'indomani sarebbe partito per le vacanze, in Sicilia. Cagliari poi si ammazzò soffocandosi con un sacchetto di plastica.

 

 

 

 

Dai verbali di Vittorio D'Aiello, legale di Cagliari, davanti agli ispettori ministeriali: De Pasquale «disse al Cagliari che avrebbe dato parere favorevole alla sua libertà, affermando espressamente rivolto al Cagliari: "Lei me l'ha messo in culo, ma io devo liberarla"». Dalle conclusioni degli stessi ispettori, paragrafo IV: «È mancato quel massimo di prudenza, misura e serietà che deve sempre richiedersi quando si esercita il potere di incidere sulla libertà altrui». E noi facciamo spallucce, perché ricordiamo anche la disperata reazione di De Pasquale, spaparanzato a Capo Peloro: «Non ho rimorso per quello che ho fatto... No, non mi sento in colpa. Ho svolto il mio lavoro basandomi sulla legge... E poi non ho fatto quella promessa. È paradossale: io sono contrario alla carcerazione preventiva».

Paradossale, De Pasquale fu ufficialmente mollato da cronisti e procura. Francesco Saverio Borrelli fu visto piangere. «Non si può promettere e non mantenere» ebbe il coraggio di dire Di Pietro, che di quella massima aveva fatto una regola di vita. La riabilitazione di Fabio De Pasquale cominciò quando fece condannare Craxi (1996) e divenne santificazione, soprattutto su Corriere e Repubblica, quando fece condannare Silvio Berlusconi (2010) dopo che, dal 2003, aveva imbastito tre processi contro di lui. Ora la ruota torna a girare, ma sino a un certo punto. Dicevamo è un magistrato.

 

 

 

 

 

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