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Funivia Stresa Mottarone, perché chi fa le indagini non può togliere anche la libertà

Bruno Ferraro
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La tragica vicenda della funivia del Mottarone, che ha causato la morte di 14 persone e il ferimento dell'unico sopravvissuto (un bambino di 5 anni rimasto orfano di entrambi i genitori), ha portato alla ribalta dell'opinione pubblica il radicale divario di vedute tra la Pm Olimpia Bossi e la Gip Donatella Banci Buonamici, che ha smontato quasi interamente l'impianto accusatorio, non convalidando il fermo di due dei tre responsabili dell'impianto e spedendo il terzo agli arresti domiciliari. Le frasi usate dalla Gip sono state oltremodo dure e perentorie: «Il fermo è stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge e non può essere convalidato»; «totale mancanza di indizi a carico di Nerini e Perocchio che non siano mere, anche suggestive supposizioni»; «scarno quadro indiziario reso ancora più debole dagli interrogatori di garanzia»; «timore del pericolo di fuga basato solo sul clamore mediatico»; «non convinzione dell'idea che i vertici dell'azienda non volessero fermare l'impianto da poco riaperto»; possibile tentativo di coinvolgimento dei vertici aziendali per attenuare la gravità della propria posizione (Tadini).

 

 

Si tratta, come è facile notare, di un totale ribaltamento della situazione, che in linea teorica potrebbe, qualora rimanesse fermo e definitivo, condurre ad una responsabilità in se de civile e/o disciplinare. Perché è opportuno soffermarsi sui risvolti di questo caso che ha vivamente addolorato e scosso l'opinione pubblica? La ragione risiede essenzialmente in taluni aspetti del potere inquisitorio dato ai Pm nel passaggio dal precedente processo inquisitorio all'attuale processo accusatorio, con conseguente svilimento sostanziale del ruolo e dei diritti della difesa. Intanto, non essendovi flagranza o quasi flagranza di reato, il fermo dei tre indagati disposto dal Pm e non dal Gip su richiesta del primo costituiva una misura eccessiva e sproporzionata, non ricorrendo ragioni di eccezionale urgenza legate al pericolo di fuga od all'inquinamento del quadro probatorio.

 

 

Il clamore mediatico e la grande emozione popolare non potevano certo giustificare, tra l'altro in modo teatrale, la limitazione di un bene sacro ed inviolabile come quello della libertà personale che è assistito da una precisa garanzia costituzionale. In secondo luogo, il reato ascritto agli indagati era pur sempre di natura colposa ancorché fosse ipotizzabile una "colpa con previsione": ipotesi che sussiste ogni qualvolta è altamente prevedibile la verificazione di un evento criminoso anche se non doloso, cioè voluto ed accettato dall'autore. Quale allora il rimedio? Non vedo altra soluzione praticabile se non quella di separare il potere di indagine dal potere di limitare la libertà personale, fatta eccezione per i casi di flagranza o quasi flagranza in cui è lo stesso Pm che esercita il controllo sull'operato della polizia giudiziaria: polizia che, con la riforma del processo penale, è stata messa a disposizione diretta del Pm. Con l'attuale normativa si rischia di avere altri casi di condotte accusatorie ardite senza che ne discenda una qualche responsabilità in capo agli autori. 

 

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